Si intitola “V” il nuovo disco di Ensi, anticipato dai singoli “Tutto il mondo è paese”, “Mezcal”, “Iconic” e in uscita l’1 settembre, a tre anni dall’ultimo “Rock Steady”. Un periodo decisamente intenso per il rapper torinese, che, tra il resto, è diventato papà del piccolo Vincent. Rispettatissimo nella scena – da freestyler ha vinto tutto – Ensi torna con un disco hip hop, nel quale, tra sonorità vecchia scuola e roba decisamente più moderna, trovano spazio anche tanti featuring. Ci sono Clementino, Luchè, Madman e Gemitaiz, oltre a Il Cile, ma soprattutto, dietro le quinte, ci sono i soci di una vita: Vox P, Double S e Dave (qui è disponibile la tracklist). Ecco cosa ci ha raccontato di quello che lui stesso definisce il suo miglior disco in carriera e che dal 1 settembre presenterà al pubblico con undici tappe instore in tutta Italia.
“V”, come il numero romano, perché questo è il tuo quinto disco, ma anche come le iniziali di tuo figlio, Vincent, e del cognome della tua famiglia, Vella. Cosa racconta quest’album?
Un sunto di tutto questo. Quando l’ho ascoltato nella sua totalità, avendo tutte le strumentali, tutte le idee e una decina di pezzi già pronti, l’idea era quella di dargli una title track, il pezzo del disco che racchiudesse un po’ tutto e quello più vicino era “Vincent”, che però è un pezzo a sé, una lettera che ho scritto a mio figlio. Usarlo come titolo del disco, quindi, sarebbe stato un po’ troppo didascalico e non ne avrebbe rispecchiato tutto il contenuto, perché c’è la visione di me come padre, ma anche come uomo e rapper. Allora ho cercato un concetto che potesse racchiudere tutte queste cose e lavorando sugli ideogrammi la V mi piaceva per un fattore geometrico, ma anche per tutti i significati che potevano ridondare nel disco. Ad esempio la traccia 14 è Vincent e I più IV fa V, quindi ci sono rimandi numerici e cabale personali. Anche nella grafica ci sono dei rimandi, tipo nel retro della copertina la foto è dei garage sotto le case popolari di Alpignano dove abitava mio nonno, dove sono nato e cresciuto e dove ho fatto le foto del mio primo album. Insomma, è un disco che raccoglie la totalità dei miei percorsi.
Tasselli tenuti insieme anche dal richiamo all’orgoglio e alla responsabilità del tuo passato da freestyler. Oggi cosa significa per te fare rap?
Quando ho iniziato questa musica era a un bivio, si stavano preparando le basi per quello che poi è successo. Nel mio contesto ho vissuto come una mosca bianca, perché i miei amici nel mio quartiere non ascoltavano il rap, nella mia scuola eravamo in 10 ad ascoltare il rap italiano, quindi ce la siamo vissuta con quel senso di appartenenza che ti legava a quella che era la famosa scena. La scena era definita e veniva considerato addirittura un genere di nicchia. Io prima da fan e poi da protagonista ho visto questa cosa cambiare completamente il suo raggio d’azione, quindi negli anni mi sono fatto un’idea di quella che poteva essere la mia evoluzione, come rapper e come mentalità. Per fortuna la base non cambia mai, nasce tutto da un’esigenza di comunicare me stesso attraverso questa forma d’arte e quando cresci non si tratta solo di voler rappare per spaccare, ma quando a 31 anni mi ritrovo a scrivere un disco come questo e mi rendo conto che la mia musica per me stesso diventa terapeutica, vuol dire che questi 10 anni non li ho buttati nel cesso e questo è un bel tirare le somme. Poi attorno è cambiato tutto formati, società, discografia, ma non in questi dieci anni, anche solo dal mio ultimo disco ad oggi. Oggi non mi sento più responsabilità, ma sicuramente mi sento nella posizione di poter andare a colmare un gap generazionale, con una nuova scuola che sta prendendo molto piede, ma fa una cosa del tutto diversa come canoni estetici e classici perché sono molto bravi a interiorizzare quello che sta succedendo nel mondo, io se provassi a fare quella cosa sembrerei un ventenne che prova a giocare a fare quel lavoro lì, mentre io invece ho la responsabilità di continuare a rappresentare quello che è stato il mio percorso fino adesso.
Spiegaci un po’ il suono di “V”.
Come in tutti i miei lavori, ma forse qui a maggior ragione, non si può fare confusione, è un disco hip hop, per quanto le sonorità possano viaggiare tra cose classiche, senza tempo, come piace a me e come spesso ho abituato i miei ascoltatori, a cose molto moderne e molto nuove, ma il tutto sempre condito da una scelta musicale ben ponderata. Ogni momento del disco è una parte di un percorso, non puoi invertire le basi con le parole, ogni canzone ha la propria identità ben definita e il tutto ha una visione di insieme. È la prima volta nella mia carriera che sono riuscito ad allineare tutti i pianeti come mi sarebbe sempre piaciuto. E poi c’è l’interpretazione, la forza che ci metto nel raccontare queste storie e il contrasto dei passaggi da momenti in cui sono molto appoggiato all’esatto contrario.
Rispetto ai tuoi lavori precedenti qui ci sono svariati featuring: Clementino (“Si come No”), Luchè (“Te lo dicevo”), Gemitaiz & Madman (“4:20”) e persino Il Cile (“Identità”).
Mi sono circondato di persone con le quali ho sempre avuto un legame o comunque un’attinenza musicale. Clementino non l’avevo mai invitato in un mio disco ufficiale, benché faccia parte del mio percorso. Insieme abbiamo fatto “2 The Beat”, rappresentando sicuramente il più grande momento di freestyle in Italia, abbiamo veramente settato gli standard, prendendo l’eredità di quelli che c’erano prima di noi e col loro rispetto. Qui lo volevo invitare sin dall’inizio e abbiamo fatto un pezzo raccontando proprio quella cosa lì. Luchè: io sono un fan dei Cosang dalla prima ora, partimmo in cinque macchine da Torino per andare a sentirli alla’Acqua Potabile di Milano alla prima data di “Chi muore per me”. Lui ha passato degli anni a essere quasi completamente messo in ombra e un po’ dimenticato, ma continuando a spingere con musica di classe, cool, con tutti gli stilemi che questa roba può avere, ma molto giustificati. In più è uno dei pochi in Italia che può permettersi di dire determinate cose al microfono, quindi per la poetica e tutto ciò che rappresenta oggi come oggi è il numero uno. Madman e Gemitaiz li ho invitati a un party, un pezzo dove si parla di fase di rullaggio e atterraggio, roba dove siamo fortissimi. Frenetik e Orange hanno fatto la produzione, ma anche lì c’è un legame speciale, quando ho fatto il mio primo tour ufficiale nel 2012 con “Era Tutto un Sogno”, facevamo parte dello stesso collettivo etichetta indipendente Tanta Roba, siamo andati in giro insieme, quindi mi piaceva condividere con loro questo momento un po’ hype del disco.
E Il Cile?
È la collaborazione che ci si poteva aspettare di meno e il pezzo è un po’ rock, con il ribaltone nel ritornello e due sonorità che si mischiano, scontrandosi un po’. In questo disco abbiamo lavorato tanto sulla soglia d’attenzione, che oggi è molto bassa, quindi ci sono tanti cambi improvvisi. Il Cile è un grandissimo fan del rap italiano, i suoi dischi, anche quello che sta per uscire mi piacciono tantissimo. Abbiamo amici in comune e così ci siamo incontrati, abbiamo bevuto, è un bifolco toscano e ci siamo trovati da paura, abbiamo parlato di “AL” la vecchia rivista di hip hop di cui lui è un collezionista, di dischi, roba underground. Poi un giorno è venuto in studio e ha scritto il ritornello di “Identità” in mezzora!
Ultima curiosità: parlando del singolo “Tutto il mondo è quartiere”, cosa pensi del casino che sta succedendo in Europa coi migranti?
Uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere la canzone è stato anche questo. Ovviamente il mio pezzo non si presenta come brano sociale, volevo fare un brano stiloso, che fosse bello da ascoltare e da cantare, ma chi ha delle orecchie e un cuore lo sente che c’è una mia visione sulla cosa. Mio padre per 200 km non è nato in Africa, mia madre viene dal Montenegro, le mie radici sono imbastardite. Nessuno di noi in una società cocktail come la nostra può sentirsi cittadino di qualcosa ed è sicuro che una rivoluzione sociale verrà da questo stato di cose, solo con il confronto ci si può liberare da determinati demoni. Poi ora che sono papà e porto mio figlio al parco in via Padova, dove abito, un quartiere che è fulcro di questo melting pot, vedo che tra i bambini non esiste differenza, giocano tutti insieme, non si odiano. Sono le nuove generazioni che vivranno insieme, quindi non posso che avere una visione positiva. Senza considerare che chi ha una visione chiusa è chi non ha mai messo piede fuori dalla porta di casa. Sarebbe veramente stupido vedere il male nel prossimo, questa strategia della tensione viene alimentata dai media, ma credo che la paura sia la prima vittoria che strappano questi signori. Io senza presunzione, né troppa responsabilità, mi sento di dire la mia su tema, l’ho fatto in questo e in altri pezzi e continuerò a farlo quando ce ne sarà l’opportunità.