Eugenio Finardi ha voglia di chiacchierare. In occasione dei festeggiamenti per i quarant’anni di pubblicazione di “Sugo”, l’album del 1976 che gli diede il successo, il cantautore milanese non lesina sui ricordi e regala una fotografia netta della società musicale italiana, sia dal punto di vista discografico sia da quello radiofonico che sono fortemente correlati.
Come mai questa decisione di festeggiare i 40 anni del secondo disco e non del primo?
Perché è stato il disco che mi ha portato al successo, ma in realtà non ho messo della musica ribelle come canzone, ho messo “musica ribelle” in generale. In realtà sto festeggiando quarant’anni di un atteggiamento rispetto al fare musica che mi ha seguito per tutta la carriera, non solo una canzone. Lo faccio festeggiando quel particolare disco, è stato anche l’anno del Parco Lambro, il disco che mi ha portato al successo… e mi è sembrato più giusto. Non che il primo non fosse importante, però poi tecnicamente c’era stato nel 1973 un 45 giri, il primo disco in realtà l’ho inciso a 9 anni quindi potrei festeggiare il cinquantenari o (ride)… Mi sembra giusto celebrare quella canzone e quello spirito, quel modo di lavorare.
Cos’è questo atteggiamento o spirito della musica ribelle? Perché oggi sembra mancare molto..
È un periodo molto normalizzato, sebbene ci siano molte cose da mettere in discussione. In generale è un atteggiamento che manca nella società, se non per alcuni, che so, tipo la Gabanelli. È un buon esempio di ribellione, perché spesso si crede che la ribellione significhi urlare, bruciare tutto: invece la ribellione è porsi delle domande, la non accettazione supina della realtà. Io credo che il dovere dei cantautori e di tutti i musicisti sia quello di testimoniare la realtà in cui vivono, siano le canzoni per gli amori e ciò che riscopre nella vita quotidiana, sia la propria vita di esseri e cittadini appartenenti ad una civiltà e ad una società.
Eugenio Finardi è pacato anche nell’esprimere opinioni che si allontanano dalle idee comuni, e le sue parole sono quelle di una persona che sa osservare la società:
Viviamo un periodo in cui si è creata una forma molto sottile di censura, quindi tutto viene concesso, si può dire tutto, però in realtà dopo si viene ignorati. Succede nell’arte, nella musica, nel teatro, nel cinema ma anche nella società: ci sono intere fasce di lavoratori la cui voce non viene amplificata, viene ignorata. Sono sempre gli stessi a parlare: è incredibile quanto quotidianamente prendiamo una dose di vari esponenti politici, diluiti, ma non c’è la voce di quelli che hanno perso il lavoro, non possono andare in pensione, hanno un’età in cui non si viene più assunti, padri e genitori separati che allevano i figli da soli… Ci sono tanti aspetti, escono come casi di cronaca ma non vengono inseriti in un contesto: si spettacolarizza, come nel caso di Yara Gambirasio, si parla di oggettivizzazione delle donne sempre più giovani… Le voci ci sono, ma non vengono ascoltate. Chi fa musica ha la tendenza a coprirsi le spalle facendo un pezzo leggerino, allegro, che può funzionare in radio, e magari nei concerti si prova a dire qualcosa.
A proposito di radio, visto che ci hai lavorato prima del debutto musicale e dopo: che cosa è cambiato nelle radio di allora e in quelle di adesso?
La risposta è ben precisa: allora c’era l’euforia della radio libera, poi pian piano le radio si sono commercializzate e sono diventate più professionali, sono arrivati i professionisti della playlist. Il ruolo dei conduttori radiofonici è marginale, sono uno sostituibile all’altro; una volta invece arrivavano coi loro dischi, la loro musica, davano il loro ritmo, era un’arte. Adesso è tutto molto standardizzato, quasi tutte le radio si assomigliano molto a parte alcune eccezioni. C’è una forma sottile di… ecco, quasi di censura. Ti dicono “non puoi dire queste cose, la gente non ha voglia di sentire queste cose, non assorbe..” e quindi si passa inosservati.
Manca un po’ di coraggio?
Sì, viviamo in un’epoca di grande omologazione. Gli anni Sessanta e Settanta sono stati un periodo fortunato, di grande libertà e ricerca della libertà, si è rotto con schemi precostituiti che adesso si sono ricreati, forse sono gli uomini che li vogliono… forse è pigrizia. La scelta crea ansia, quindi se viene fatta per te da qualcun altro è più facile. Però si perde uno spazio di libertà.
Una curiosità: come mai “Sugo” è stato intitolato così?
Perché c’erano vari sapori: un pezzo reggae, pezzi rock, pezzi di musica contemporanea.. era un disco molto vario, anche se molto coerente, però andava da tanti parti. Voleva essere un disco di rock italiano: anche per la caratteristica di musica ribelle, avevamo messo il violino al posto della chitarra e usavamo gli strumenti della nostra tradizione popolare. Erano sapori diversi messi insieme per creare un accompagnamento alla vita: e cosa c’è di più italiano del sugo?
Dal tour di questi 40 anni di carriera cosa ci aspettiamo? Ci saranno altre date?
Noi siamo eternamente in tour! Se ci vogliono, noi ci siamo. Il prossimo appuntamento è straordinario, mi hanno invitato a suonare in Cina: saremo a Shanghai e Pechino, se non ci sono intoppi burocratici a fine mese porteremo lì la musica d’autore, saremo gli ambasciatori della musica d’autore italiana. C’è un ragazzo cinese che si è innamorato dei cantautori studiando qui in Italia e ha messo in piedi una bella situazione: ha creato un’associazione, ha fatto conoscere ai musicisti e cantautori cinesi la musica d’autore italiana e un cantautore cinese mi ha invitato a condividere con lui il palco. Siamo molto eccitati! Il tour andrà avanti fino ad esaurimento, finché ci vogliono noi ci siamo (sorride).
Che tipo di scaletta proponete?
Lo spettacolo è diviso in due parti: nella prima ci sono le canzoni fondamentali, anche degli ultimi anni, quelle di cui il pubblico non può fare a meno. Nella seconda parte c’è l’esecuzione di tutto il disco “Sugo”, cominciando dall’ultimo pezzo per concludere con “La radio” e “Musica Ribelle”.
https://www.youtube.com/watch?v=SvLyPWJ7CZo
Mi ha colpito un’affermazione che hai fatto: a chi ha fatto due o tre canzoni famose vengono richieste solo quelle, mentre chi ne ha fatte una trentina almeno ha più varietà. Uno come Francesco De Gregori che non esegue la canzone che chiede il pubblico o cambia le parole, tu come lo vedi? Ti sembra un tradimento nei confronti del pubblico?
È la libertà d’artista, un diritto dell’artista di scegliere come proporsi. Finché uno è vivo… (ride) lo fa anche Bob Dylan. Quest’anno eseguiremo i brani di “Sugo” cercando proprio i suoni dell’originale, è raro, anche io in altre occasioni rivendico il diritto di cambiare e magari anche di crescere. Cambio le parole, magari qualcuna, perché magari aggiorno il pezzo. Ci sono canzoni che sono inquietantemente attuali, oppure scopri che ti viene una soluzione più elegante e più poetica. Finché è vivo l’autore le canzoni possono cambiare, sono come figli, assumono vita propria.
Ci sono canzoni cui sei particolarmente legato e ti viene spontaneo proporle sempre in scaletta?
Certo! “Amore diverso”, “Extraterrestre”, “Un uomo” che è più recente però trovo sia una delle più interessanti che ho scritto… Poi ci sono altre che invece in una stagione sono fondamentali, e in un’altra vengono sostituite da altre. In questo momento ho ritrovato una canzone “Oltre gli anelli di Saturno”, ispirata dai viaggi della sonda Voyager di cui avevo seguito il lancio, e siccome pochi giorni fa hanno battezzato col mio nome un asteroide, adesso quella canzone la canto e cito questo avvenimento… questo non me lo sarei mai aspettato!
Ti capita mai di riascoltare delle vecchie registrazioni, delle demo, e riscoprire dei brani tuoi, o delle cover, che ti emozionano?
Mi capita, mi capita… Io uso lo shuffle nell’ascolto, ho tantissime canzoni nel telefonino, e quando ascolto in cuffia ogni tanto compare una mia canzone, che magari non ascoltavo da quando l’avevo fatta. a volte mi sorprendo: guardare indietro, con canzoni di trenta-quarant’anni fa, oramai le guardi come guardi i tuoi figli, non sei il tu di adesso, sei il tu di allora, ti fa anche tenerezza.
Ci sono delle canzoni che vorresti aver scritto?
Sì tante, alcune le ho anche ricantate. Ad esempio “Hallelujah” di Leonard Cohen, “Verranno a chiederti del nostro amore” di De Andrè, “Le donne di Atene” di Chico Buarque, “Una notte in Italia” di Fossati…
Tra le nuove leve della musica rock chi ti attira? C’è qualcuno che riesce a fare quel lavoro parallelo tra società pubblica e racconto del privato?
Sono pochi ma qualcuno c’è. Mi viene in mente Le luci della centrale elettrica, Vasco Brondi si guarda intorno. Ci sono dei gruppi che mi piacciono molto: i Marta sui Tubi, i Marlene Kuntz… Mi piace molto Daniele Silvestri perché scrive molto bene: nuova leva, vabbè, è in giro da un po’ ma comunque rispetto a quaranta anni (ride)… Lo seguo da tempo, mi piace moltissimo, e con lui Max Gazzè e Niccolò Fabi. È bello il rapporto di questo trio di amici e la musica che fanno, insieme o separati.
C’è qualcuno con cui vorresti duettare, o fare addirittura un trio?
Mi piacerebbe molto, data l’età, con Alice e Battiato. Con Max Gazzè e Silvestri mi piacerebbe, con Carmen Consoli e Max Gazzè…
Magari qualche promoter decide di mettervi insieme per un tour speciale…
(si limita a sorridere al telefono)
Cosa ci dobbiamo aspettare dopo questo tour? Un disco?
In realtà sto lavorando ora alla masterizzazione dei primi cinque dischi storici, ho appena iniziato questo progetto… Non guardo così avanti, anche perché sennò mi viene voglia di farlo (ride) e mi trattengo! Però tanti non conoscono l’ultimo album che ho fatto, uno dei più belli che ho scritto; negli ultimi anni ho fatto delle cose molto particolari che molti non conoscono perché le radio non li hanno normalmente trasmessi, sono ancora tutti da scoprire. Prima di metterne altri al mondo voglio che crescano quelli che ho già fatto.
Eugenio Finardi ci saluta augurandoci buona primavera, con la voce gentile che da sempre lo contraddistingue. Resta il padre di un certo cantautorato indie-rock che a lui deve molto, ma la sua specialità è quella di non salire mai in cattedra e restare genuino. Come un piatto di pasta al sugo condiviso in compagnia.