I Fanfarlo sono una band multiforme, inglese ed apolide nello stesso tempo, quando li vedi sul palco sembrano una banda di paese che suona arrangiamenti di canzoni New Wave. Incontro Leon e Amos durante il primo giorno dell’I-day del 2010. Due chiacchiere prima della loro esibizione ci danno le coordinate per inquadrare meglio loro e il loro album di debutto, “Reservoir”.
Avete già suonato qui a Bologna?
Sì, tre anni fa al Lokomotiv, gran posto. Era il nostro primo concerto in Italia.
Adesso verremo anche a Milano insieme ai Mumford And Sons. Li conosciamo da un po’, abbiamo fatto una cosa come dieci o undici date con loro.
I vostri testi sono molto letterari, molto colti: prendete a piene mani da un certo tipo di immaginario, parlate di escapologia…
Quello di cui parliamo viene spesso dalle letture di Simon, o dalla voglia di raccontare di personaggi particolari, strani o carismatici, che hanno vissuto vite interessanti, per esempio Harold T. Wilkins.
E’ come scrivere mentre si sogna, in tutto un altro universo che di reale ha ben poco, un modo distante dallo scrivere come se le tue canzoni fossero il tuo diario segreto: tratti del personale, ma in maniera diversa. I temi sono personali, nella loro universalità, la frustrazione, l’alienazione, ma il modo di esporli è più simile al metodo confusionario del sogno che al racconto. Ti svegli e ti accorgi che tutto parlava di te, ma niente è chiaro ai tuoi occhi.
Anche dal lato musicale, la vostra proposta è molto particolare, ci sono moltissimi strumenti nei vostri album, moltissime città sembrano suonare dentro le vostre melodie.
Ognuno di noi suona strumenti molto diversi, e ha quindi la sua grande influenza sui suoni, veniamo da posti molto distanti fra loro, siamo cresciuti in maniere differenti e siamo tutti incredibilmente curiosi rispetto a quello che c’è al di fuori del nostro campo.
Certe vostre scelte sono effettivamente molto particolari, ad esempio la sega musicale: come viene scelto uno strumento del genere? Prima decidete il suono che volete avere e poi imparate di conseguenza a suonare lo strumento, o piuttosto costruite una canzone intorno ad uno strumento così particolare perché sapete già suonarlo?
C’è stato un momento preciso mentre registravamo il nostro ultimo album durante il quale la cosa più importante è diventata avere più suoni possibili, e sperimentarne il più possibile, aggiungerli uno sull’altro. Eravamo interessati a confrontarci con tanti stimoli esterni e così, ad esempio, Cathy, che suonava il violino, ha provato a suonare la sega.
Quindi per scrivere i vostri pezzi come fate, partite dalla forma più semplice e poi iniziate ad aggiungere cose?
Sì, spesso ci piace pensarci come una marching band.
Mi ricordo che quando abbiamo registrato “I’m A Pilot” abbiamo fatto suonare la chitarra acustica a tutte le persone che conoscevamo, anche quelle che non sapevano suonare, le abbiamo registrate tutte, eravamo sei o sette, tutti lì a suonare tutte le chitarre che c’erano nello studio, a martellare sugli accordi. Contemporaneamente, sempre sulla stessa canzone, abbiamo fatto un lavoro simile con le percussioni: abbiamo schiacciato, preso a calci e sbattuto qua e là tutto quello che abbiamo trovato, per avere quel suono così chiassoso, appunto, da marching band.
Com’è la scena musicale, a Londra?
A Londra può essere molto difficile farsi sentire, ci sono tantissime band e tantissimi posti dove suonare, ci si perde molto facilmente, c’è una saturazione tale per cui i gruppi sono così tanti che è difficile per loro e difficile per chi la musica la segue, ci sono un sacco di proposte che è impossibile seguire, puoi uscire tutte le sere e vedere tutte le volte qualcuno di diverso. Se te lo puoi permettere, puoi veramente avere una proposta musicale altissima tutte le sere.
E di tutte queste proposte cosa vi sentite di consigliare?
Beh, noi negli ultimi mesi siamo stati sempre via, quindi non so, stiamo ascoltando molta musica vecchia, e quella nuova che ci ispira viene più dall’America che da Londra, io sto ascoltando molto i Neon Indian, e una compilation di synth wave italiana dall’82 all’87, “ Danza Meccanica”, me l’ha passata Justin, il nostro bassista, che ascolta un sacco di musica goth e wave, mi è piaciuta un sacco, davvero.
Certo, siamo bombardati dalle nuove proposte: ogni giorno ti guardi intorno e trovi magari dieci o undici gruppi nuovi, dei quali non hai mai sentito parlare, e non puoi seguirli tutti.
E non capisci magari quale genere di gruppo possa essere interessante sul lungo termine e chi invece dopo poco avrà già stufato, anche se all’inizio ti piace.
Sì, bisognerebbe riuscire ad ascoltare ogni album più di una volta, per entrarci veramente dentro, ma chiaramente questo non si può fare sempre, se no diventa un lavoro a tempo pieno, e allora fai il critico.
Un modo carino, se no, sono quei siti che ti fanno una compilation di quello che potrebbe piacerti in base a quello che hai ascoltato fino a quel momento, tipo Pandora o Last.fm. Funzionano abbastanza bene.
Ascoltare musica su web è, di base, molto strano.
Sì, manca del tutto il rituale dell’ascolto, comprare un disco, scartarlo, metterlo nel giradischi, o scoprire un nuovo gruppo mentre ascolti la radio.
Uno dei modi più belli di scoprire la musica rimane andare in tour: suoni con tanta gente, scopri cose nuove e ti confronti con gli altri. Alla fine, ogni sera senti suonare le canzoni dei gruppi con cui sei in giro, è come mettere su sempre il loro cd, ti abitui, te ne innamori, analizzi.
Chi vi è piaciuto dei vostri compagni di tour?
I Race Horses, senza dubbio. Hanno fatto uscire un album l’anno scorso, sono del Galles.
Visto che siete in tour da così tanto tempo e che l’album è uscito un anno fa, i vostri concerti suonano molto diversi da come le canzoni sono registrate?
Abbastanza. Siamo tutti d’accordo nel lasciarci andare un po’ di più quando suoniamo dal vivo, in più, i pezzi si sono di sicuro evoluti e trasformati, ci sono elementi nuovi, senza dubbio, ma non ti diciamo niente, lo sentirai dopo con le tue orecchie.
Francesca Stella Riva