Fino a tre anni fa era David’s Lyre, pseudonimo con cui ha pubblicato l’EP “In Arms” e l’album “Picture of Our Youth”. Oggi Paul Dixon è tornato con un progetto nuovo di zecca, sotto il nome d’arte di Fyfe, e un album, “Control”, nato e realizzato sotto l’egida dell’idea di “semplicità”. Lo abbiamo incontrato poco prima del concerto al Magnolia di Segrate (Milano), dove si è esibito nella prima giornata dell’Unaltrofestival (leggi QUI il nostro report), ultima tappa del mini tour italiano con cui ha toccato anche Roma e Lucca.
Sei appena arrivato da Roma, dove hai aperto per John Legend, il giorno prima eri a Lucca e oggi è il tuo ultimo concerto in Italia. Com’è andata?
È stato molto divertente, nonostante il caldo! Ero stato in Italia una sola volta prima per suonare con The Son, quindi è bello essere di nuovo qui. Stavolta ero anche più rilassato, perché sapevo più o meno cosa aspettarmi ed è stato davvero figo!
Questo è un nuovo capitolo nella tua carriera, hai un nuovo nome, un nuovo progetto e un contratto con una nuova etichetta, la Believe Recordings. Cos’è successo durante questo il periodo di transizione?
Ho composto una marea di canzoni, nelle quali ho sperimentato diversi suoni e idee e alla fine un pensiero molto chiaro si è fatto strada nella mia mente: avevo bisogno di ricominciare. Poi ho scritto “Solace”, grazie a cui tante cose che avevo fatto nel periodo precedente hanno assunto un senso. Pubblicarla con il nuovo nome di Fyfe ha rappresentato un nuovo inizio per me e sono felice che la gente lo abbia apprezzato.
Cos’è cambiato rispetto all’epoca di David’s Lyre?
Credo che il maggior cambiamento abbia a che fare con l’idea di semplicità. In David’s Lyre c’era tanto in tutti i momenti, c’erano un sacco di strumenti e i testi erano molto poetici. In Fyfe, invece, è tutto più semplice, ci sono solo tre, massimo cinque elementi presenti in contemporanea, c’è più elettronica, le ritmiche sono elettroniche e nel complesso è leggermente più orientato verso l’hip-hop. In fin dei conti si è trattato di ridurre il tutto, riportando al centro le canzoni, in modo da essere certi che il materiale su cui stavamo lavorando fosse davvero buono, per poi costruirci attorno un nuovo sound.
Cosa significa letteralmente Fyfe e più in generale l’idea di lavorare sotto pseudonimo?
Il nome Fyfe in realtà non ha un significato letterale, ma il fatto di poter lavorare sotto nomi diversi mi garantisce un sacco di libertà creativa, e il potere di abbracciare qualsiasi genere voglio. Sai, lavorando col tuo nome, il rischio è quello di venire etichettato in base alle prime cose con cui esci: «ecco, questo è il sound di Paul». Questo non presuppone che ogni volta ci siano dei cambiamenti drastici, ma per me come persona creativa è molto importante conservare la libertà di fare ciò che mi piace.
Il tuo nuovo album si intitola “Control”, quanto ha a che fare il titolo con il diventare Fyfe?
Come David’s Lyre ero sotto una major e la sensazione era spesso quella di avere perso il controllo e che stessero facendo quello che volevano con me. Come Fyfe, ho scritto tutto l’album senza il supporto di nessuna etichetta, riprendendo effettivamente le redini della situazione. Ma in realtà il titolo si riferisce al trovare il controllo per poi riuscire a perderlo di nuovo, nei termini in cui si riesce a farlo solo quando trovi la persona giusta da amare o una cosa che ti piace fare nella vita, insomma quando ti senti in un “luogo” sicuro.
È questo il tema centrale dell’album?
Sì. Non è direttamente presente in tutte le canzoni, ma indirettamente lo è.
Hai menzionato prima la canzone “Solace”, che è stata un po’ l’inizio di questa nuova avventura…
Sì, non so cosa sia successo con quel pezzo. All’epoca non stavo nemmeno pensando all’ottenere un contratto, stavo semplicemente facendo quello che mi piace. Poi ho mandato la canzone a un discreto numero di blog, dicendo semplicemente: «Ehi, qui c’è un nuovo artista Fyfe e una nuova canzone “Solace”». Alla fine è andata benissimo in rete, il mondo dei blog l’ha fatta un po’ sua ed è andata al numero uno di The Hype Machine, ha avuto una cifra di ascolti su SoundCloud e la gente ha iniziato a telefonarmi [ride]. È stato bello, anche se non mi capacito come possa essere successo.
Il video di “Solace”, che riprende l’artwork dell’album, inizia con il tuo viso ricoperto di vernice, che viene man mano rimossa. Qual è il significato di fondo che volevi suggerire?
Ha molti significati e in generale, come per le canzoni, mi piacerebbe tantissimo che chi ascolta si senta libero di trovare il proprio significato anche nell’artwork. A me piace innanzitutto l’effetto estetico, ho trovato un’artista, Sophie Derrick, che lo fa su se stessa e abbiamo collaborato per l’artwork di “Control”. Il significato reale ha a che vedere con l’avere un progetto sotto pseudonimo, col non essere mai stato interessato all’essere famoso, ma piuttosto al fare musica per la gente e a questo concetto di anonimato della persona che fa musica e di lasciare che sia la mia musica a diventare famosa.
Una sorta di maschera?
Sì, più o meno.
Raccontaci delle altre canzoni dell’album, quando sono nate e cosa le ha ispirate?
Ho scritto tutto l’album nell’arco di diciotto mesi. I pezzi sono arrivati tutti in momenti diversi e credo che l’album sia un mix delle mie esperienze personali e dell’osservare i miei amici, la mia famiglia, vedere quello che stavano attraversando, ma anche dello stare seduti in un caffè e osservare come le persone interagiscono tra di loro. Mi piace creare storie a proposito di persone che non conosco, ma delle quali posso inventarmi la vita. È un processo che deve necessariamente avere una componente autobiografica ed essere in risonanza con le emozioni che provi o hai provato.
Ascoltando l’album ho avuto l’impressione che possieda un calore e un’intimità che non c’erano in “Picture of Our Youth”. Qual era il tuo obiettivo per il sound di questo disco?
Volevo che tutto ruotasse attorno alla voce e alle canzoni. Sicuramente ci sono ritmo e struttura nell’album, ma credo che l’intimità di cui parli dipenda da quanto forte e prominente è la voce. Se togliessimo tutto e lasciassimo solo la voce, non so, forse avrebbe ancora senso, perché come ti raccontavo tutto qui è partito dal concetto di semplicità e del togliere, piuttosto che aggiungere.
Hai avuto una formazione classica, che emerge qui negli aspetti sinfonici e a volte jazzy di alcuni arrangiamenti, ma complessivamente nella produzione c’è qualcosa di molto contemporaneo. Quali sono le tue maggiori influenze?
Recentemente c’è stata un’ondata di R&B elettronico a cui la gente mi associa, ma io non sento di appartenere a quel mondo. I miei riferimenti musicali sono piuttosto Björk, i Radiohead, Thom Yorke e roba del genere, nei termini in cui sono elettronici, ma conservano un’intimità.
La title track “Control” chiude l’album con un sound leggermente diverso, che ricorda un po’ Thom Yorke. A tale proposito hai dichiarato che volevi lasciare l’ascoltatore con qualcosa di nuovo… cosa bolle in pentola?
Sì, sto iniziando a scrivere il mio nuovo album, ma sono ancora all’inizio, quindi non sono ancora sicuro di come suonerà. Sicuramente volevo dare un segnale che non sarà uguale al precedente, quindi con “Control” (il brano, ndr) ho colto l’occasione per suggerire che un cambiamento ci sarà, non necessariamente in quella specifica direzione, ma ci sarà.