Ian Hunter: “Ringrazio ancora il destino per aver suonato nel 1992 a Wembley con David Bowie e Mick Ronson”

È bello sapere che gente come Ian Hunter sia ancora in giro (questa sera al Bloom di Mezzago) e che, soprattutto, tanto i suoi dischi che i suoi show non abbiano perso un briciolo di dignità col passare del tempo, cosa di cui non tutti i mostri sacri del rock possono vantarsi. Schivo e fuori dai riflettori, Hunter prosegue imperterrito su sentieri che possono apparire fuori dal tempo, ma non lo sono affatto. Il timore, infatti, è che scomparsi personaggi come lui, vada piano piano a esaurirsi anche quella fiamma che, ancora oggi, è capace di portarci indietro nel tempo con un solo accordo: “Di sicuro, in quel periodo storico, si concentrarono una serie di fattori concomitanti così unici da essere probabilmente irripetibili. Ognuno traeva ispirazione da altri, c’era un gran senso di condivisone che forse rappresentava l’ultimo retaggio del sogno hippie o qualcosa del genere. E poi, c’era una quantità tale di talenti che sarebbero diventati celebri in qualsiasi campo si fossero cimentati”.

La carriera di Ian, come tutte le migliori storie rock ‘n’ roll, è fatta di cadute fragorose e vertici impensabili ai più: più che trentenne, dopo anni on the road con i Mott The Hoople che faticavano a fare il grande salto, Ian si convinse addirittura che quel mondo potesse non essere il suo. Poi arrivò Bowie, che offrendogli la sua “All The Young Dudes” lo portò dritto nell’olimpo: “Bowie aveva una capacità rara di scrivere brani che, al primo ascolto, diventavano dei classici. Diciamo che ciò avvenne per davvero molti anni. Una di quelle grandi composizioni decise di regalarla a noi, con un gesto che mostrava un altruismo raro in un mondo come quello. Non si trattava di uno scarto recuperato dallo studio o qualcosa del genere, era un brano che sarebbe diventato comunque una hit nella sua discografia, qualcosa che solo un folle avrebbe donato ad un’altra band. Quando decidemmo di scioglierci, Pete (Watts, bassista dei Mott The Hoople) chiese a David se gli servisse un bassista, avendo saputo che stava mettendo su una nuova band. A quel punto, David disse che la nostra storia non poteva concludersi in quel modo”.

Bowie aveva amato così tanto I Mott, che voleva sdebitarsi in qualche modo e lo fece con un regalo che ne evidenziò da un lato l’incoscienza, ma dall’altro il grande animo di cui era provvisto. Quel brano diede anche il titolo al disco prodotto da Mick Ronson e dallo stesso Bowie che, proprio come era accaduto per “Transformer” di Lou Reed, trasformò i Mott in superstar mondiali. Oltre ad aver collaborato per una vita con lo stesso Ronson, nel suo ultimo album, intitolato Fingers Crossed, il vecchio leone del rock inglese ha dedicato all’autore di “Life On Mars” un brano intitolato Dandy, in cui è riuscito a condensare un po’ dei sentimenti che lo legavano al Duca Bianco. “Stavo scrivendo un brano inizialmente intitolato Lady, ma non riuscivo a completarlo, non arrivava da nessuna parte. Poi, dopo la sua scomparsa, di colpo si è trasformata in quella che oggi è Dandy. È una riflessione sui suoi anni prima di Ziggy, quelli in cui il suo arrivo creò qualcosa di mai visto in precedenza. Ti parlo del 1971, in Inghilterra ancora si piangevano i Beatles e la fine del flower power. Gli altri ancora seguivano le vecchie regole del blues. Mi ricordo di averlo visto vestito da donna la prima volta e di esserne rimasto shockato. Nessuno e ti garantisco, nessuno, ai tempi poteva permettersi una cosa del genere. Fu come passare dal bianco e nero al technicolor in pochi secondi e rappresentò l’inizio di un’era”.

In molti sono convinti che Hunter stia vivendo una seconda giovinezza simile a quella che riportò Johnny Cash a suonare nei più grandi festival europei a più di settant’anni, ma le due vicende presentano pochissimi punti in comune: Ian continua a scrivere e lo fa con una consapevolezza e una sincerità che riescono ancora a lasciare senza fiato. Ogni volta in cui parla di Mick Ronson, i suoi occhi si illuminano e la memoria vola immediatamente a Wembley, quando nell’aprile del 1992 diede vita a una delle collaborazioni più incredibili mai viste su un palco di quell’importanza: “Era la prima volta in cui suonavamo insieme io, David e Mick. Inoltre i Queen facevano da backin’ band e credo che ai cori ci fossero i Def Leppard. In qualche modo fu anche la fine di un’epoca del rock inglese. Eravamo lì a celebrare una delle figure più influenti che il Regno Unito avesse mai conosciuto e, tristemente, quello sarebbe stato anche l’ultimo show a cui Mick avrebbe preso parte. Era già malato e purtroppo se ne sarebbe andato l’anno successivo. Non so chi ebbe l’idea di farci suonare tutti insieme, forse David o probabilmente i Queen superstiti, fatto sta che non eravamo mai stati tutti e tre sullo stesso palco e quella fu una performance magica e toccante. Per chi era cresciuto con la nostra musica, quella fu davvero una specie di chiusura di una storia iniziata vent’anni prima e pensarci oggi è qualcosa che mi riempie di nostalgia, ma per la quale ringrazio ancora il destino. Credo sia stato giusto utilizzare quella canzone per chiudere il suo ultimo album, anche se la registrazione non
rende pienamente giustizia all’esecuzione
”.