Se un personaggio come Paolo Benvegnù decide di mettere le mani e la faccia su un disco, diventandone il produttore artistico, un motivo deve pur esserci: è infatti sufficiente un solo ascolto del debutto omonimo della band umbra Il Testimone per rendersi conto della qualità delle composizioni e del lavoro dell’ex Scisma. Abbiamo incontrato Alberto Fabi, che del progetto è cantante ed autore di tutte le liriche. Quando e come nasce il progetto il Testimone? “Il testimone nasce due anni fa, come nome più che altro, in realtà l’ossatura della band esiste da molto prima, quando aveva un altro nome. Col tempo, quando attraversi i trenta le cose prendono un nuovo aspetto, certe situazioni cambiano e maturi nuove idee, così anche il sound e il modo di scrivere, soprattutto quando inglobi un nuovo componente che inserisce uno strumento così importante come il piano, sia che esso sia un rodhes o un piano acustico. Per farla breve, tre anni fa avevamo concluso i rapporti con il nostro vecchio produttore, ma avevamo molti brani lavorati in pre produzione, ancora non c’era un’idea ben precisa di cosa farne, poi abbiamo deciso di produrlo, trovare qualcuno che ci desse una mano e tirarne fuori qualcosa di nuovo, diverso per noi.
E avete aggiunto il piano…
“Esattamente. Proprio mentre pensavo a cosa cambiare nel sound mi sono imbattuto in Matteo Carbone, col quale ho iniziato a scrivere un po’ di materiale: non avendo avuto mai la possibilità di comporre utilizzando questo strumento meraviglioso, mi sono trovato di fronte ad un nuovo mondo. Da lì è poi nato tutto: l’agognata evoluzione del sound, la possibilità per me di dedicarmi più al canto, l’inserimento di una seconda chitarra, essendo Matteo anche un chitarrista e un arrangiatore, insomma credo che il testimone sia nato così.”
Quanto ha influito l’animo e la sensibilità di Paolo Benvegnù sul risultato finale dell’album?
“Beh, credo moltissimo. Paolo ha un anima talmente grande che permea di positività tutto quello che sfiora. Lavorare con lui è una cosa che abbiamo cercato fortemente, perché da sempre lo stimiamo enormemente come artista. Poi, quando lo conosci, e per conoscerlo intendo conviverci per più di sei mesi, scopri che dietro il personaggio c’è una persona meravigliosa, che mi ha dato moltissimo sotto tanti aspetti. Con lui abbiamo fatto tutta la pre produzione, la produzione e i mix, quindi l’anima di Paolo riempie il disco. Inoltre ci ha fatto l’onore di cantare tutte le seconde voci. Sicuramente è stata un’esperienza fondamentale.”
Parlami della copertina…Un privilegio non da poco, so che molti artisti avevano pensato a quella location..
“La copertina è stata un’idea del fotografo Riccardo Lorenzi. Eravamo alla ricerca di un’idea, così in giorno m’imbattei nel mio vecchio amico Riccardo, incredibile fotografo capace di cose meravigliose. Gli spiegai quello he stavamo registrando, gli feci sentire il materiale con la promessa che, dopo averlo ascoltato, mi avrebbe fatto una proposta adeguata. In quei mesi era indaffaratissimo a concludere il book di Paolo Conte, ma nel giro di due settimane ecco la proposta: una session fotografica all’interno dei musei ex seccatoi di Alberto Burri. L’idea era fantastica e la location una delle più affascinanti ed inaccessibili per situazioni di questo tipo. Gli ex seccatoi sono un’opera unica nel suo genere, un luogo magico, inverosimile, e totalmente visionario: sapevamo bene che poco prima avevano detto di no a nomi enormi che avrebbero voluto sfruttarne il fascino, ma talvolta la fortuna ti bacia…Abbiamo quindi parlato con la fondazione Albizzini, esposto il nostro progetto, lasciando il disco e una lettera. La cosa ha funzionato, si sono innamorati del disco e la foto di copertina si è concretizzata: scattare lì dentro è stata un’emozione incredibile, quel posto ti scava dentro.”
C’è un significato particolare dietro al vostro nome?
“Il testimone è ciò che siamo: osserviamo il mondo osservando noi stessi, percorriamo il nostro tempo cercando di farlo al meglio, vivendolo e raccontando ciò che ci sfiora o ci tocca nel profondo. Perciò in questo album convivono canzoni come E se, Guai , Nebbia o Per Fare Che: punti differenti d’osservazione, di testimonianza, di racconto. Produrre il ricordo e la testimonianza sono una questione fondamentale…è qualcosa da proteggere, qualcosa che serve molto, per non dimenticare e per costruire con più cura.”
Pensi che la musica possa ancora avere un valore educativo o, quantomeno, etico?
“La musica è espressione di te e, in quanto tale, resta un punto di vista. Se hai un minimo di cose da dire, che abbiano un senso e non si limitino al solito cuore/amore/sole, credo tu faccia etica ed educazione. Ovvio, bisogna capire cosa intendi per educazione e soprattutto per etica: sono concetti talmente impolverati ultimamente che non so bene come vengano presi a volte. Noi possediamo la nostra etica, principalmente verso di noi e verso la musica che produciamo: i testi che scriviamo, le emozioni e l’amore che riversiamo sulle note. Comunque per rispondere seccamente alla tua domanda, me lo auguro e me lo aspetto ogni volta che compero un disco, anche se a volte il panorama è disarmante, terribilmente disarmante.”
Anche in base alla tua esperienza personale, credi che ci sia un futuro per ‘questo’ music business?
“Questa è una domanda da miliardi di euro…Sicuramente il music business è un carrozzone malato, malatissimo, che ancora non ha capito che pesci pigliare e va per tentativi, attraverso meteore prive di ogni minimo senso o pudore. Non credo sia colpa di internet o del copiare un cd o comunque non si può riversare le colpe solo su questi due fattori: il problema è la qualità di quello che senti, soprattutto nei cosiddetti prodotti mainstream. Basti pensare alla scarsità di pezzi italiani passati su Mtv. Il problema è davvero vasto da analizzare. Noi comunque andiamo avanti.”
Perché si continua a preferire il vecchio al nuovo? Credi sia un problema prettamente italiano (penso al fatto che dalla politica a qualsiasi ruolo di maggior responsabilità, nel nostro paese, tutto sia in mano ad anziani)?
“Perché preferiamo il vecchio al nuovo? Un’altra domanda decisamente complessa. Il vecchio forse è più sicuro, o comunque perché dal vecchio tendi a scartare tutto quello che è brutto, tenendo solo le cose belle. Pensa a quando guardi un vecchio film di guerra: c’è l’azione, l’avventura, le spie, le storie d’amore e ti piace, t’appassiona, ma solo perché hai tolto il peggio, che in quel caso è rappresentato dalla morte, i lutti e così via… In Italia i vecchi stanno a capo di tutto, anche se ci sarebbe spazio per tutti. La mediocrità di chi sta nei punti nevralgici della società porta con sé il terrore che chi davvero ha qualcosa da dire debba possa ottenere quel il posto. È questo il problema di fondo: in Italia esci di casa a trent’anni anni, se va bene, e ti cominci a mantenere autonomamente a trentacinque. Poi a cinquanta sei ancora un “ragazzo”, ma a trentacinque come noi un esordiente. Temo che anche l’estero sia più idealizzato di quello che sia realmente: anche lì è un po’ come i film vecchi di guerra…Credo che viverci sia diverso. Non che non ami l’estero, l’Europa e tutto quello che ha da offrire: appena posso scappo a farmi un viaggio, ma amo terribilmente l’Italia e per questo sono perennemente incazzato.”
Luca Garrò
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