Indie Tune: la poesia mitologica fatta canzone nel nuovo disco di Max Manfredi

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Max Manfredi torna in scena con un nuovo disco realizzato e finanziato dalla campagna di crowdfunding targata Musicraiser. Si intitola “Dremong”. Un nome che apre scenari del tutto inaspettati e improvvisamente vicina ad un immaginario collettivo antico di generazioni di favole. Un orso mitologico, tibetano, un uomo delle nevi, forse lo Yeti in persona. Istinto ma anche passione, cura di ogni singola parola quanto di ogni singola nota cesellata a dovere in questo nuovo disco di Max Manfredi

Un nuovo disco di 13 brani più una traccia di introduzione strumentale. Il leitmotiv che tiene assieme questi brani?
Il tempo. Direi il tempo, nelle sue varie accezioni, che sarebbe lungo qui elencare. Il tempo che è, più che galantuomo, giocoliere, e mischia fra loro le canzoni più vecchie e più nuove, confondendole in un trucco di luci. E poi il timbro della mia voce e la grana della mia scrittura, che attraversano il tempo con le loro variabili. E l’Orso, che – a parte la canzone a lui dedicata, Dremong – fa capolino ogni tanto anche negli altri brani, ed era uno dei miei “totem” infantili. Ma soprattutto  la voglia di suonare, mia e dei musicisti, e di suonare a colori; la scommessa di farlo con precisione ma senza senso di colpa o pauperismo estetico.

Oltre venti gli anni di carriera, ben due volte premiato al Tenco, ben infinite volte premiato dalla critica, sempre e comunque accolto da un pubblico fedele che resiste e pretende ancora qualità e cultura dietro un’opera artistica.
Come artista prima e come uomo poi. Questo nuovo disco che momento della tua carriera rappresenta?

Come uomo, cioè un essere con velleità di individuazione e soggetto ai giochi di specchi della memoria, questo disco per me è il presente attuale, un implausibile passato e un futuro scaramantico. Ma tutta questa pretesa cronologica scompare e si disseziona nell’interpretazione, di cui infine il disco è una testimonianza perfezionata e congelata. E qui veniamo al cosiddetto artista, che incarna la sua scrittura invece che incartarla (o, in quest’epoca, farne formichine di luce digitale, come un poeta blogger).
Come “artista” , cioè come l’essere che con tutto questo materiale ci gioca o ci lavora, questo disco è strumento ed esito di esperienza e, si spera, di guadagno, o almeno di sostentamento.
Non ho invece assolutamente il senso della “carriera” (eppure, o forse proprio perché, da bambino mi piaceva tanto un gioco da tavolo che si chiamava, appunto, “Carriere”). Quando mi chiedono di mostrare  il mio curriculum vitae mi viene in mente Totò (“Come, qui davanti a tutti? Eh, mica per altro, sa,  ci sono delle signore…)”.

Un disco di immagini e suoni, di figure allegoriche e immediati cambi di scena per tornare alla realtà dove si inseguono scenari medioevali, suoni etnici di altre culture, retrogusti di un rock progressive che tanto ha segnato un’epoca.

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La tua musica e le tue parole vogliono essere molto figurative e visionarie. L’intento è quello di lasciare spazio libero all’interpretazione di ciascuno oppure pensi sia solo questo il modo per rendere al meglio il messaggio che vuoi restituire?

Le mie parole non “vogliono” essere figurative e visionarie, lo sono. Lo sono al di là della volontà, non forse del compiacimento, di chi le scrive.  L’intento è, appunto, sfogarmi, sgravarmi di ciò che ho concepito misteriosamente, come un medium con il suo ectoplasma; e magari, come un medium truffatore, farne spettacolo. La verità dello spettacolo è lo spettacolo, ci è stato ripetuto fino alla nausea ed è proprio così.
Lo scrittore è magari martire, ma sicuramente è Pilato: ho scritto ciò che ho scritto (e anche attore: me ne lavo le mani).
Che si interpreta un po’ alla Marchese del Grillo: il procuratore sono io, voi non siete quasi nessuno, io scrivo quello che mi pare sulle croci che il lavoro, la burocrazia della carneficina, mi impongono di erigere.
L’interpretazione di ciascuno nei confronti di una canzone è decisamente libera, non solo perché sarebbe stupido mettere dei divieti, non solo perché il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo (anche se, a rigore, ci possono essere risonanze emotive che precedono il “dar senso” e gli danno senso). Ma perché una canzone si fa (almeno) in due: chi è bravo a cantare e chi è capace ad ascoltare.
È libera, cioè soggetta alle prigioni e alle segrete del pensiero di chi interpreta, non di chi ha inventato.
In certi casi,  paragono l’attività dell’ascoltatore a uno che ha in mano un caleidoscopio. Lo strumento è lì, gli è fornito; ma è lui che deve girare il tubo, per permettere i giochi di rifrazione. È lui, infine, che “interpreta” a suo talento quelle policrome formazioni d’immagini.
Ci sono canzoni chiare e canzoni oscure, c’è il trobar leu e il trobar clus nei trovatori medievali, ci sono i cantastorie popolari  sgrammaticati ma perfettamente conseguenti nel racconto, altre volte nemmeno quello,  ci sono i profeti e ci sono quelli che annotano impressioni. Io sono un cinematografaro. Cerco di essere chiaro, nelle mie canzoni, ma mi permetto un montaggio molto libero.  Il primo rispetto verso l’ascoltatore è non ritenerlo a priori  un insensibile imbecille, e credo sia anche la differenza fra l’operato artistico e quello pubblicitario, da anni l’uno così necessario all’altro.

 

Grazie a Marco Pinti

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