Intervista Max De Aloe presenta Bjork On The Moon

Intervista Max De Aloe Bjork On The Moon presentato dall'autore

Max De Aloe è uno dei più importanti musicisti jazz di armonica cromatica dei nostri giorni, non solo italiano. Attivo anche come bandleader da più di dieci anni, ha appena pubblicato “Bjork On The Moon“, album in cui l’artista interpreta in chiave jazz, con il suo quartetto (più la presenza della violoncellista brasiliana Marlise Goidanich), alcuni brani della famosa cantante islandese, più tre sue composizioni inedite intitolate “Askja”, “Il bosco che chiamano respiro” e la title – track stessa.

Come mai hai sentito la necessità di reinterpretare in chiave jazz i brani di Bjork? Che cosa si devono aspettare i tuoi fan?
Bjork ha una componente misteriosa e affascinante. Il suo modo di comporre è adatto per il jazz di oggi e la sua liricità perfetta per il modo di suonare l’armonica. Il pubblico che mi segue anche in questo “Bjork on the moon” potrà trovare il mio modo specifico di fare musica. La musica di Bjork qui è rielaborata secondo il mio gusto e il suono particolare del mio gruppo che esiste ormai da anni con un suo suono e una sua estetica e una filosofia musicale.

Quali sono state le differenze a livello compositivo fra questo e i tuoi dischi precedenti, quelli in cui il materiale era composto da te?
In questo CD ci sono solo tre brani composti da me ma in effetti non cambia molto tra quando suono musica mia o quando suono musica che scelgo tra composizioni altrui. L’importante è che il brano mi piaccia, che sia vicino alla mia idea di musica, al mio sentire. Il musicista di jazz improvvisa su qualcosa che esiste ma in realtà è come se componesse in tempo reale. Se un brano mi piace lo faccio mio e cerco di suonarci sopra cose nuove ogni sera. Alla fine, posso suonare “Joga” di Bjork o “El dia que me quieras” di Carlos Gardel, “In a sentimental mood” di Ellington o “Il coro a bocca chiusa” di Puccini ma è musica che mi piace talmente tanto che me ne approprio indebitamente e la faccio mia.

Già nel precedente “Bradipo” insieme al tuo quartetto hai riletto alcune delle più note pagine dei Pink Floyd. Hai anche reso omaggio alle canzoni di Luigi Tenco in un tuo spettacolo. Insomma il tuo lavoro non manca di un forte interesse verso il rock. Pensi quindi che ci sia ancora spazio per uno scambio fecondo fra jazz e pop/rock, e che da esso possa nascere qualcosa d’innovativo (lo chiedo anche in qualità dei tuoi studi di sociologia e in particolare per il tema della tua tesi di laurea)?
Noi siamo una generazione che nonostante abbia scelto il jazz è nata inevitabilmente nell’epoca del grande rock. Amiamo Davis ma obbligatoriamente i Led Zeppelin o i Pink Floyd e molti altri. E’ inevitabile che questi amori escano quando suoniamo. Inoltre il jazz di oggi è un jazz che non ha paura di fare incontri differenti, di mischiare le proprie carte. Anni fa si era succubi solo del repertorio jazz americano e afro-americano. Ora non è così. Siamo maturi per cercare nuove vie. Io sono un curioso di natura. Vivo di stimoli continui che mi arrivano da musiche differenti, da culture differenti. Amo e cerco di suonare lo chorinho brasiliano di inizio ‘900 così come la bossa-nova, il tango argentino, la musica barocca, il jazz, il pop, la lirica. Poi sono in grado di filtrare il tutto attraverso il jazz che è la musica che conosco meglio e che amo ma ho bisogno di stimoli diversi. Stimoli che arrivano da altre arti ma anche da sottoculture di diverso genere. Non si può fare musica oggi senza tenere presente le influenze culturali e sociali di oggi. Per questo motivo amo definire la mia musica come contemporanea perché è inevitabilmente connaturata all’oggi pur legata ad alcune culture e tradizioni del passato.

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Pubblichi dischi come bandleader da oltre dieci anni e sei fra gli armonicisti jazz più noti ed affermati nel mondo. Come sono stati gli inizi? Hai trovato difficoltà a importi nella sfera jazzistica a causa di una scelta strumentale così originale? E perché hai scelto proprio l’armonica come tuo strumento d’elezione, dopo l’inizio della tua carriera dedicata allo studio del pianoforte?
Ho iniziato da piccolo come pianista ma quando ho incontrato l’armonica cromatica è stato amore a prima vista. Ho sentito che dovevo seguire questo strumento. E questo innamoramento dura tuttora dopo circa 25 anni. Gli inizi con l’armonica sono stati belli perché avevo una grande motivazione che non ho perso. Studiavo moltissimo ma nello stesso tempo ero affascinato dai progressi che facevo e da quello che si può tirare fuori da uno strumento così. Non ho trovato tante difficoltà con gli altri musicisti. C’erano pochissimi armonicisti jazz allora come adesso e inevitabilmente gli altri musicisti erano incuriositi dal mio strumento. Qualche episodio negativo c’è anche stato ma sono stati abbondantemente sorpassati. Sono un ottimista di natura. Ricordo solo le cose belle.

In generale, quali sono stati gli incontri che ti hanno spinto ad intraprendere la carriera di musicista? Quali le tue prime influenze/infatuazioni?
Da piccolo i Beatles e “Mi chiamano Mimì” di Puccini. Bastava quell’aria a farmi impazzire. Il primo 45 giri che ho comprato (anzi che mi ha comprato mio padre per sfinimento) è stato “Staying Alive” dei Bee Gees, colonna sonora de “La febbre del sabato sera“. Poi sono sono arrivati Police, Deep Purple, Pink Floyd, Supertramp, Jackson Browne, Traffic, Bob Marley ma anche i cantautori italiani e Pino Daniele. Si dovevano corrompere amici e amici di amici per farsi registrare una cassetta C-90. A 18 anni sono impazzito per gli Style Council e gli accordi di Paul Weller e Mick Talbot mi hanno aiutato ad avvicinarmi sia alla bossa nova brasiliana ma anche al jazz di Keith Jarrett (il suo meraviglioso “Koln Concert” in piano solo) e di George Benson. Poi è arrivato Bill Evans, Chet Baker, Miles, la fusion degli anni ‘80 e tutto il resto. Ho ascoltato in realtà di tutto (dai Siouxsie and Banshees agli Area). Anche quello che non mi piaceva. Dovevo capire tante cose dalla musica. Il bello degli LP di allora era che continuavi a sentirli e risentirli. La musica non era usa e getta, aveva un valore. Non bastava schiacciare un pulsante su you tube. Forse è anche per questo che ho deciso che questo “Bjork on the moon” doveva essere realizzato anche in LP (500 copie numerate e autografate).

“Bjork On The Moon” vede anche la partecipazione della violoncellista brasiliana Marlise Goidanich, e per la presentazione del cd sarai anche accompagnato dalla tromba di Paolo Fresu, musicista con cui hai già suonato. Sono solo due delle tue molte collaborazioni: che arricchimento trai e trae la tua musica da questi scambi creativi?
Il bello del jazz è che puoi suonare con tanti musicisti diversi e di culture ed estrazioni differenti. E’ meraviglioso. Non puoi imparare solo dallo studio del tuo strumento e dal suonare con delle basi. L’incontro con l’altro è fondamentale in questa musica. Suonando con strumentisti diversi continui a metterti in gioco, ad allargare la tua visuale, ad imparare. Ho suonato più volte in paesi dell’Africa ed è fantastico capire come per loro la musica è veramente incontro. Da una jam-session ad Harare in Zimbabwe è nato poi un vero e proprio tour che ho realizzato l’anno scorso in Italia con tutti musicisti dello Zimbabwe e la fantastica cantante Dudu Manhenga. Marlise Goidanich che è una violoncellista di musica classica, soprattutto, ha dato un colore in più al gruppo e una spinta maggiore. La devo ringraziare.

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Oggi pensi che ci sia ancora spazio per il ‘rischio’ nella musica? Credi che le etichette discografiche (parlo soprattutto a livello di major) siano ancora disposte a scommettere su artisti che, come te, cercano di affrontare un discorso artistico non succube delle mode del momento? Oppure si pensa solo a vendere un prodotto ‘rodato’ e che non comporti il minimo azzardo?
Sembra assurdo ma il rischio oggi se lo può permettere solo l’etichetta indipendente. O addirittura il musicista attraverso l’auto produzione. La major non ha più margini per rischiare in nulla e nemmeno nessun interesse. Ha troppi costi e pochi ritorni.

Come pensi che internet abbia influito sulla musica, presa in senso lato? Si è trattato e si tratta di qualcosa di positivo oppure no?
Internet ha lati positivi e negativi per la musica e sono tutti molto evidenti. Con un click puoi scoprire tutto e ascoltare tutto ma nello stesso tempo ha svilito il nostro lavoro e distrutto il mercato discografico. Il mondo non è controllato dai politici o dai presidenti ma ovviamente dalle lobbies. La lobby dell’informatica è molto ma molto più potente di quella della musica. Per questo motivo la musica deve essere nell’ottica contemporanea qualcosa che deve passare quasi sempre gratis a favore di un’informatica che invece devi pagare. Basterebbero poche ore per chiudere i siti di condivisone di file e di download illegale ma è evidente che milioni di giga di musica che viene illegalmente scaricata serve ad ingolfare computer, hard disk esterni, chiavette usb e molto altro. Più musica si condivide gratuitamente e più l’industria dei computer fa affari. Poi, tutti noi, siamo ormai obbligati ad usare questa tecnologia in una isteria di ipercomunicazione. Se internet fosse arrivato 50 o 60 anni fa non avremmo forse John Coltrane, Charlie Parker, i Beatles o Frank Sinatra. Quel mondo era alimentato da un music-business che faceva girare soldi e poteva investire sui talenti.

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Sei molto attento al rapporto fra suono e arti visive. Fra le altre cose, hai sonorizzato dal vivo il film “Nanuk l’eschimese”. Cosa ti ispira maggiormente di questo rapporto?
Amo il cinema, così come la letteratura. La mia è una musica che è naturalmente immaginifica. Il mio modo di comporre e di suonare si presta facilmente all’accompagnamento di immagini. Per esempio per “Bjork on the moon” ho fatto il contrario. Ho commissionato a una giovanissima videomaker di mettere delle sue immagini su un mio brano. L’ha fatto su “Askja” e il risultato è interessante. Per la prima volta qualcuno che mette le immagini sulla mia musica e non io che devo suonare sopra a delle immagini già prestabilite.

Stefano Masnaghetti

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