Intervista Riccardo Fioravanti Coltrane Project è il nuovo disco

Intervista Riccardo Fioravanti Coltrane Project è il nuovo disco

Riccardo Fioravanti è uno dei più grandi contrabbassisti jazz italiani, e non solo. Dopo aver reinterpretato la musica di Bill Evans in un disco uscito alcuni anni fa, ora è appena stato pubblicato per i tipi della Abeat Records il suo nuovo album, “Coltrane Project“, in cui, accompagnato dal suo trio formato da Andrea Dulbecco al vibrafono e da Bebo Ferra alla chitarra acustica, reinterpreta alcune fra le pagine più significative, note e meno note, del grandissimo sassofonista americano John Coltrane. Lo affiancano ospiti prestigiosi, quali Fabrizio Bosso, Dino Rubino e Giovanni Falzone a trombe e flicorni.

Cosa puoi dirci riguardo al disco?
Come al solito, quando esce un disco è come se ti nascesse un figlio. In questo caso, poi, era da molti anni che lo stavamo preparando, da quando è uscito quello su Bill Evans, quindi sono passati quasi otto anni ormai; l’abbiamo limato molto in questo tempo, tassello dopo tassello…tra l’altro sono stato l’ultimo ad averlo in mano, perché tra impegni vari non ero ancora riuscito a passare dal discografico a ritirarlo…insomma è sempre una grande gioia quando riesci a veder pubblicato il tuo lavoro.

Perché hai scelto, dopo Bill Evans, di reinterpretare John Coltrane? Perché proprio quest’autore?
Evans è stata una scelta molto meditata. Ho fatto il disco proprio nel periodo in cui lo stavo studiando, è un autore al quale mi sono approcciato con la maturità, da giovane non mi aveva mai colpito molto. Al contrario, Coltrane è stato uno dei miei primi amori: mi colpì subito “My Favorite Things“, questa canzoncina a mo di valzer tratta dal film “Tutti insieme appassionatamente“, che lui trasformava in un’orgia di suoni e di modalità. Poi anche “A Love Supreme“, con la sua spiritualità, e “Giant Steps“, con il suo senso della simmetria degli accordi, furono due dischi che mi entusiasmarono immediatamente. Insomma, era da tanto tempo che volevo farlo. E in “Coltrane Project” quello che m’interessava era soprattutto rileggere non il sound del suo gruppo, bensì la sua musica. Per quello ho deciso di eliminare non solo il sassofono, ma anche strumenti che caratterizzavano il suo quartetto, come il piano e la batteria.

Quindi quali sono state le maggiori difficoltà che tu e il tuo trio avete incontrato nel rileggere la musica di Trane senza questi strumenti?
Sarebbe facile rispondere che il problema maggiore è stato per la parte ritmica, perché mancando la batteria – e la batteria di Elvin Jones era fortemente ritmica e fortemente africana – sembrerebbe mancare un elemento fondamentale. Tuttavia, con il mio modo di suonare il contrabbasso, a volte molto percussivo, e con l’uso del vibrafono, anch’esso utilizzato in modo percussivo (e poi il vibrafono è uno strumento di origine africana, deriva dal balafon), siamo riusciti ad ovviare a questo inconveniente. Più che altro il problema è stato mantenere l’equilibrio fra la musica di densa spiritualità ritmica di Coltrane e il nostro modo di suonare, cameristico e persino impressionista. Con Evans non c’è stata questa necessità, perché già la sua musica è cameristica, mentre per Coltrane è stata inevitabile la necessità di trovare questa mediazione.

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Come sono stati i tuoi inizi nel mondo della musica? E perché hai scelto il contrabbasso come tuo strumento? 
In realtà il primo strumento che ho suonato è stato il basso elettrico. Soprattutto grazie all’ascolto di Jack Bruce dei Cream: all’inizio volevo imitare i grandi chitarristi, come Santana, Eric Clapton e Jimi Hendrix. Poi, sentendo i dischi dei Cream, mi colpirono le frequenze basse che Bruce otteneva con quello strano strumento. Con i soldi che avevo per la chitarra comprai invece un basso elettrico. Fu amore a primo suono. Poi, col tempo, mi appassionai al contrabbasso, prima grazie alle collaborazioni di Santana con grandi contrabbassisti, come ad esempio Stanley Clarke, che ebbi anche la fortuna di vedere dal vivo con i Return To Forever, e poi via via con altri. Ron Carter è stato un altro tassello fondamentale per la mia formazione. Comprai anche un contrabbasso elettrico della Framus, prima di entrare in Conservatorio per studiare piano complementare. Perché allora il contrabbasso acustico non m’interessava ancora del tutto, rimanevo un bassista elettrico. Per me il contrabbasso era uno strumento dell’orchestra di musica classica. Solo dopo esser entrato in Conservatorio, e grazie anche a un mio compagno di corso, iniziai a studiare seriamente questo strumento, che ora è quello che suono come bandleader.

“Coltrane Project” vede la partecipazione di Fabrizio Bosso, Giovanni Falzone e Dino Rubino a trombe e flicorni. Ma in passato hai collaborato con moltissimi altri musicisti, non solo jazzisti ma anche provenienti dal mondo del pop/rock: che arricchimento trai e trae la tua musica da questi scambi creativi?
Un arricchimento enorme. Perché io principalmente nella musica sono un onnivoro. Da ragazzo, come dicevo, ero più che altro un bassista hard rock, suonavo cover di Cream, Led Zeppelin, Black Sabbath e Deep Purple; poi Santana mi avvicinò al jazz, ma ancora adesso per mio diletto ascolto di tutto. Molta musica classica, da Mozart – sono un mozartiano incallito – a Chopin a Monteverdi al Novecento, faccio studiare ai miei allievi Bach, ma anche gli impressionisti, perché sono legati al jazz e a Bill Evans, per esempio. Ma ascolto anche il pop e il rock, tuttora: mi piace Lady Gaga, che trovo una grande artista e un grande personaggio, ma apprezzo molto anche i Tool e i System Of A Down. Quindi per me suonare con molti altri musicisti, di ogni ambito, e continuare ad alimentare queste collaborazioni è fondamentale.

Che differenze trovi fra il mondo della musica pop e quello del jazz? Universi incomunicabili oppure secondo te c’è ancora spazio per uno scambio come negli anni Settanta con il jazz rock, i dischi del Miles elettrico, dei Wheater Report, di Hancock etc.?
In questo momento le differenze fra jazz e rock sono abissali. Perché ora il mondo del rock è molto vicino al mondo del pop, è molto codificato, mentre il mondo del jazz per fortuna è ancora libero, forse più che in passato. Una volta non era così, una volta i mondi erano a contatto; pensa ai grandi raduni, come quello dell’isola di Wight, in cui accanto a Hendrix poteva esserci Miles Davis o Joni Mitchell, e tutti traevano linfa vitale da questo scambio. E pensa anche a un’altra cosa: così come nella musica classica, nel rock è sparita una delle componenti più divertenti, l’improvvisazione: se ti vai a riascoltare i dischi dei Cream, dei Led Zeppelin, dei Deep Purple oppure degli Allman Brothers Band o di molti altri, trovi delle improvvisazioni lunghissime, spesso di stampo coltraneiano addirittura. Dischi come “A Love Supreme”, ma anche quelli di Davis come “In A Silent Way” oppure “Bitches Brew“, hanno influenzato moltissimo questi musicisti rock, e loro erano i primi ad ammetterlo. Questa purtroppo è la cosa che si è veramente persa nel rock degli ultimi anni. Per quello io adesso ascolto band come Tool e System Of Down – ma ce ne sono anche altre – che hanno ancora questa componente di freschezza nel loro sound, oppure i Radiohead, che pur essendo un’altra cosa sono veramente creativi, se ne fregano del business, e fanno business più degli altri. Questo è sintomatico…

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Oggi pensi che ci sia ancora spazio per il ‘rischio’ nella musica? Credi che le etichette discografiche (parlo soprattutto a livello di major) siano ancora disposte a scommettere su artisti che, come te, cercano di affrontare un discorso artistico non succube delle mode del momento? Oppure si pensa solo a vendere un prodotto ‘rodato’ e che non comporti il minimo azzardo?
Anche qua c’è da distinguere fra il mondo del jazz e quello del rock. Nel jazz c’è ancora spazio per qualcosa d’inconsueto. Mario Caccia, per esempio, il patron della Abeat Records, l’etichetta per la quale incido, è una persona che ha ancora voglia di rischiare e di essere pioniere. Ma ci sono tante altre piccole etichette – piccole come grandezza, non certo per la qualità – che fanno lo stesso. Nel mondo del rock solo qualche indipendente, ma le major non hanno intenzione di rischiare più nulla: una volta era tutto diverso, la CBS, la EMI, l’Atlantic erano tutte label che producevano opere innovative, rischiose. Oggi il rischio e la voglia di mettersi in gioco è tutta sulle spalle degli artisti. Forse adesso i costi sono superiori, ma si potrebbe comunque trovare il modo di cambiare qualcosa in questo senso…

Come pensi che internet abbia influito sulla musica, presa in senso lato? Si è trattato e si tratta di qualcosa di positivo oppure no?
In senso positivo, sicuramente, c’è il fatto che internet ha dato la possibilità a molta gente di conoscere tanti artisti la cui conoscenza sarebbe stata invece preclusa, non ci fosse stato questo mezzo. Penso soprattutto all’importanza avuta da MySpace piuttosto che a Facebook, infatti mi dispiace che ultimamente MySpace sia un po dismesso. L’aspetto negativo è il bombardamento continuo che rischia di farti perdere il controllo, soprattutto a te in quanto ascoltatore. E questo spesso va a scapito della qualità. Insomma, spesso non c’è equilibrio fra la grande offerta di musica e la necessità che la qualità rimanga alta e che non si abbassi troppo.

Progetti futuri?
Si ce ne sono. Ce n’è soprattutto uno, chiamato Note Basse. Si tratta di un esperimento che vorrei fare da tempo, ma che poi alla fine io e il mio trio avevamo accantonato, perché non aveva riscosso il successo sperato, forse non era stato capito…ora però voglio riprenderlo in mano, e ne stiamo parlando molto, io i miei musicisti e Mario Caccia. Adesso non so ancora come si evolverà, non ne ho idea, e non vorrei neppure parlarne troppo per scaramanzia, però si tratterà di un progetto di strumenti in chiave di basso, vorrei dare risalto a questa componente del suono…

Stefano Masanghetti

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