Intervista Vittorio Mezza

Esce il 17 aprile “Life Process“, il nuovo disco di Vittorio Mezza. In “Life Process” l’autore interpreta al piano sia composizioni originali sia standard di John Coltrane, Thelonious Monk e Duke Ellington. Tra i brani eseguiti dal pianista campano anche un’ interpretazione di “Quando”, celebre successo di Pino Daniele. Abbiamo raggiunto Vittorio per chiedergli quali sono le principali differenze tra Life Process e i dischi precedenti: “Life Process è un disco introspettivo che segna la consapevolezza di un percorso: l’imprescindibile compenetrazione tra vita e forma artistica. Rappresenta un momento di riflessione in un mondo sempre più parossistico, a ogni livello, e forse, proprio per questo, potrebbe sembrare un disco controcorrente. Il piano solo, a mio avviso, è qui inteso come una ricerca personale per bilanciare l’equilibrio di un rapporto: un po’ come fare il ‘punto della situazione’ con lo strumento e con se stessi, e quindi Life Process è la fotografia di questo rapporto.”

Come mai la scelta di rileggere i brani di altri interpreti affiancandoli a composizioni originali? Una certa continuità internamente al disco? “Nei miei dischi amo sempre rileggere qualche brano dei grandi del passato (soprattutto di Monk e Coltrane) poiché le loro composizioni non smettono mai di interessarmi da ogni punto di vista: si prestano ad una manipolazione direi totale e, allo stesso tempo, lanciano una sorta di sfida avventurosa – non priva di rischi – di coerenza, responsabilità e rispetto con l’attuale: dopo tutto quello che è stato detto come sarà il mio Monk oggi, nel 2012? Quanto riuscirò ad essere me stesso nel riempire il magico contenitore vuoto di Coltrane o Ellington? E’ volgendo lo sguardo alla tradizione che si può creare un inaspettato riflesso di luce nuova.”

Come mai la scelta tra gli altri è caduta su John Coltrane, Thelonious Monk e Duke Ellington? “Coltrane, Monk e Ellington (ma ovviamente non solo) sono, da ogni punto di vista – persino quello visivo -, dei veri e propri stargate per il mondo dello sviluppo del linguaggio dell’improvvisativo e compositivo.”

Quanto il tuo stile compositivo ed esecutivo è cambiato in questi anni? “Direi decisamente, poiché la musica – e soprattutto l’improvvisazione -, evolvendosi con la vita stessa, è sempre in continuo cambiamento.  Senz’altro ho studiato tanto e continuo a farlo: ci sono periodi in cui si tende a privilegiare un parametro musicale piuttosto che un altro – concentrandosi per esempio più sul ritmo o sull’armonia – o ad approfondire l’attenzione sul fraseggio di questo o quel musicista in particolare etc. etc. Inevitabilmente e in maniera diversa però, negli anni, ho sempre cercato di individuare nuove prospettive, nello sforzo di raggiungere una dimensione che sta a metà tra la cristallizzazione finale oggettiva – forse troppo lampante! – e la profonda consapevolezza personale – leggermente più dubbiosa ma al contempo misteriosamente appagante –  riguardo a quelle che possiamo identificare come personali ‘linee di fuga’ dal reale attraverso l’arte.”

Quali sono state le influenze principali della tua carriera? Quegli artisti e quei dischi che ti hanno spinto a essere un musicista? “Da bambino, grazie a mia madre, ho sempre ascoltato musica, certo non jazz, parliamo di musica classica, pop e canzoni, ma sempre con una marcata attenzione al flusso portante della musica e alle cosiddette parti strumentali, piuttosto che alla ricerca del senso del testo stesso. Ho studiato musica classica diplomandomi al Conservatorio (amo moltissimo ad es. Béla Bartók, Bach, il Novecento) e, suonando nei vari gruppi, ho approfondito la musica rock, il progressive e l’improvvisazione. Tra i primi contatti col ‘jazz’ posso annoverare musicisti come Pat Metheny – (presentatomi musicalmente dall’amico Angelo) che ho ascoltato e trascritto da subito -, Miles Davis, Herbie Hancock, Lyle Mays.Effettivamente la musica strumentale in genere mi ha sempre attratto perché più di ogni altra cosa è senza barriere. Non c’è quindi un riferimento preciso a un disco in particolare – la musica può essere bella tutta -, so solo che da subito ho sempre pensato di fare il musicista, pardon, di essere musicista, al di là di ogni altra scelta.”

Riesci a identificare, fino a questo momento, qual è stato il tuo momento migliore e quello peggiore o più difficile della tua carriera? “Domanda non facile, certamente guardando alle spalle ho vissuto momenti musicalmente diversissimi e mi piace ricordarne alcuni tra i più significativi (di difficili ce ne sono sempre tanti!): ricordo con grande emozione l’ammissione al corso di jazz del Conservatorio S. Cecilia dopo una dura selezione e quando, dopo la laurea, ho iniziato proprio lì ad insegnare pianoforte jazz complementare; ricordo quegli attimi poco prima di aprire il concerto del quartetto di Wayne Shorter (al Festival di Roccella Jazz 2005), che facevano dimenticare il caldo del lungomare di Reggio Calabria, o il piano solo come unico pianista italiano nell’ambito del Montreux Jazz Festival (in Svizzera nel 2005) su uno Steinway gran coda rosso fiammante (da far girar la testa!); o l’arrivo negli Stati Uniti – ho davvero pensato molto agli emigranti di un tempo, al sogno americano – insieme all’incredibile e visionaria traversata da New York verso il Canada per i concerti in trio (con i fantastici Alec Walkingtone e Dave Laing) a Montreal nel 2009, circondato dal calore dei tanti italo-americani, dai vari apprezzamenti ma, soprattutto, pervaso dall’inarrivabile entusiasmo e dalla felicità che si prova nel suonare  e condividere la propria musica – cercando di dare tutto se stessi  – dall’altra parte del mondo!”

 

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