Quasi 24 anni di carriera alle spalle e ancora voglia di suonare, di divertirsi e di far divertire a palate. E non solo. Questi sono i Korn, di passaggio in Italia per l’unica imperdibile (e sold out) data nel Belpaese, prevista all’interno del mastodontico tour a supporto dell’ultima fatica della band capolista del nu metal, “The Serenity of Suffering”, pubblicata nell’ottobre del 2016. Poco prima dello show, abbiamo avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Reginald “Fieldy” Arvizu. Insieme al bassista, abbiamo tastato il polso della situazione attuale della formazione, indagando il ritorno alle origini segnato da “The Serenity of Suffering”, facendo un paio di considerazioni sulla scena nu metal attuale e approfondendo temi ormai cari ai due terzi della band, ovvero la spiritualità e la religione.
“The Serenity of Suffering”: un ritorno alle radici
I Korn hanno pubblicato il primo omonimo album nel 1994. Da allora, sia a livello personale che soprattutto musicale, i Nostri si sono ritrovati su un ottovolante emozionale e si sono spesso sentiti disorientati. Un episodio in particolare che Fieldy ricorda come decisivo per le sorti della sua band è stato l’abbandono del chitarrista Brian “Head” Welch nel 2005, con conseguente ritorno nel 2013. “Quando Head se n’è andato, abbiamo deviato dal nostro percorso, sperimentando nel corso degli anni e dei dischi nuove sonorità e nuovi generi, almeno per noi. Ma quando Head è tornato siamo ritornati anche noi in pista”. Quindi, dopo qualche scossone di assestamento, “The Serenity of Suffering” segna un periodo di stabilità, finalmente. “È quello che abbiamo sempre voluto fare, e ora possiamo farlo senza remore, proprio come abbiamo fatto all’inizio. Quello che senti oggi in “The Serenity of Suffering” è ciò che siamo veramente e che siamo sempre stati”. Ma spesso, non è detto che quello che piace alla band sia apprezzato anche dai fan: “A noi ora interessa divertirci con la nostra musica, anche se a volte non vale lo stesso per chi ci ascolta. Pensa che a volte capita che le canzoni che piacciono di più ai fan sono quelle che significano meno per noi”. E dal punto di vista del singolo, l’era di “The Serenity of Suffering” segna uno dei momenti migliori della carriera del bassista, proprio grazie a quella ritrovata energia e voglia di divertirsi.
Korn e Slipknot, una fratellanza indistruttibile
Uno dei punti più alti del dodicesimo album dei Korn è “A Different World”, pezzo che trova la sua massima espressione grazie a un incisivo featuring di Corey Taylor. Fieldy ci ha raccontato quanto questa collaborazione sia nata da sé, senza forzatura alcuna. “Jonathan (Davis) ha mandato un messaggio a Corey dicendo che c’era una canzone perfetta per lui e per la sua voce, e che aspettavamo solo lui per inserirla nella tracklist di “The Serenity of Suffering”. Corey non è stato neanche un attimo a pensarci su, e nel giro di pochissimo tempo ha risposto con un secco e meraviglioso “cazzo sì!”.” Nel corso degli anni, Slipknot e Korn hanno sviluppato un legame fortissimo, cementato da lunghissimi tour insieme e da evidenti affinità elettive, musicali e non. “Dopo tutto questo tempo siamo diventati come fratelli. Corey ci ha regalato la sua presenza, e anche noi faremmo la stessa cosa per lui e i ragazzi degli Slipknot. Siamo come una grande famiglia, e in famiglia ci si aiuta l’uno con l’altro, no?”.
Il nu metal è vivo e gode di ottima salute
I Korn hanno pubblicato il loro album numero 12, i Linkin Park stanno per mandare alle stampe un nuovo disco, e addirittura una band molto lontana concettualmente, i Suicide Silence (che suonano deathcore) si sono lasciati intrigare dal nu metal. Pare proprio che il genere che ha fatto la fortuna di Fieldy e soci stia vivendo una seconda giovinezza. “Il fatto che siamo qui a parlarne nel 2017 è la cosa più positiva in assoluto. Là fuori ci sono ancora band che hanno tantissimo da dire, sia live che in studio, con una carriera solida alle spalle e ancora voglia di spaccare”. Insomma, c’è molto fermento in generale, e le storiche formazioni nu metal sono diventate a tutti gli effetti un fenomeno transgenerazionale, che si trasmette di padre in figlio. O di band in band.
Il segreto del successo? Un occhio al passato e uno al futuro, ma senza stress
“The Serenity of Suffering” è il nuovo capitolo in casa Korn, ma per le sue sonorità più “canoniche” segna appunto un ritorno sui propri passi. Si dice che spesso per andare avanti bisogna guardare al passato. Se poi è glorioso, tanto meglio. Ma che cosa riserverà il futuro ai Korn? “Posso dirti con certezza che ogni volta che mettiamo piede in studio, non sappiamo mai con che cosa ne usciremo. Il segreto è evitare di porsi troppe domande sul futuro, lasciandosi trasportare dall’ispirazione del momento”. Quindi massima serenità, nessuna aspettativa e piedi ben piantati nel presente. Il trucco è vivere alla giornata, insomma.
Quando le dita non ne vogliono sapere di rispondere agli impulsi del cervello…
Ma la spontaneità è una benedizione. E Fieldy ha imparato come conquistarsela sulla propria pelle, o meglio sulle proprie dita. “A volte capita quando suoni la chitarra o il basso che le dita non ce la facciano, anche se la testa sa benissimo cosa debbano fare”. Una sorta di blocco dello scrittore, ma l’esperienza insegna a non farsi prendere dal panico: “questa paralisi è solo psicologica, figurati se dopo tot anni uno disimpara a suonare. Il segreto è continuare a fare pratica, a sforzarsi anche quando sembra che non ce ne sia più. L’unico modo per superare l’empasse è quello di imporsi di farcela”.
Quella canzone mi ha salvato la vita
A proposito di momenti difficili, è ovviamente capitato anche a Fieldy e compagni di sentirsi dire dai fan “quella canzone mi ha salvato la vita”. “Componiamo brani in cui moltissimi si rispecchiano almeno una volta nella vita o in periodi particolari di essa. Toccare nell’intimo le corde delle persone non è un compito né facile né scontato, ma viene naturale quando è diretto e genuino, e si parla di esperienze vissute in prima persona e condivise con la band”. E il bello è che soprattutto chi suona canzoni di questo spessore sa bene di cosa sia capace il potere della musica. “Anche a me la musica quando ero ragazzo ha aiutato a superare momenti difficili, senza musica non so se ce l’avrei fatta a sopravvivere a certi periodi della mia esistenza”.
Dipendenza e spiritualità: due opposti che condividono una grande verità comune
Fieldy però non è stato salvato solo dalla musica. Come dichiarato nella sua autobiografia “Got the Life: My Journey of Addiction, Faith, Recovery, and Korn”, la religione ha giocato un ruolo fondamentale nella sua vita. A questo punto, la domanda sorge spontanea: esiste una connessione tra spiritualità e dipendenza? “Sono entrambe reali. Ho sperimentato la dipendenza per gran parte della vita e so quanto impatti concretamente a livello di sforzo fisico e psicologico starne alla larga”. E al tempo stesso, anche se può sembrare il contrario, anche la spiritualità è reale. “La gente si interfaccia con un numero infinito di divinità, e può essere una scelta spiazzante in prima istanza. Io ho donato la mia vita a Gesù Cristo e so che è reale perché è parte di me da 15 anni a questa parte, ogni giorno”. Ma è complicato fare una scelta, soprattutto quella giusta. “Trovare la guida giusta è una responsabilità enorme e mostruosa, forse ancora più terribile della dipendenza. Quando ti fai ti si apre sì una finestra sul mondo spirituale, ma senza nessuno che ti indichi la via da seguire, è un posto davvero spaventoso”. Però Fieldy per fortuna la sua strada l’ha trovata.