Matteo Fraboni, giovane batterista promessa del jazz, racconta come la musica possa cambiare la vita e come la vita entri nella musica. Dall’esperienza cubana col grande Changuito ai maestri africani, dalle strade di New York all’Alexander Platz di Roma.
Un po’ enfant prodige, un po’ ribelle (nel senso buono) del jazz, per lui la vera università della vita è il viaggio. Passaporto in mano e cuore pieno di musica, Matteo Fraboni invita a scoprire nuovi ritmi attraverso la conoscenza delle persone. I suoi occhi han contemplato l’Africa, New York e Cuba, facendogli capire il valore di un respiro che, ne son sicura, presto s’incarnerà in una musica tutta sua. Una lunga chiacchierata per avvicinarsi alla nuova generazione di jazzisti italiani…
Matteo, quando è nata la passione per la batteria?
“Ho iniziato a suonare da piccolo, passavo molto tempo da solo, e già dagli otto anni circa, ricordo giocherellavo con una vecchia tastiera di mio zio, provando a suonare di tutto, dalle pubblicità che sentivo alla tv ad orecchio, ai piccoli waltzer che erano riportati nel libro delle istruzioni. Passavo molto tempo così, poi mi sono letteralmente innamorato della batteria, grazie ad un amico che mi fece sentire alcuni dischi. Dovevo compiere 14 anni e rimasi folgorato dall’energia di quello strumento. Da lì in poi sono come impazzito, o meglio, praticamente ho iniziato a vivere in funzione di lei, della musica, cercando dischi del più bel rock ’70, fino alla classica, etnica, e alla più moderna elettronica.”
C’è un disco che ha cambiato la tua vita musicale e in che modo?
“Non è passata un’estate che non abbia frequentato un seminario di Jazz, il primo a Perugia, i corsi della Berklee, dove tutti facevano “zin-ti-tin” sul piatto, e io non riuscivo a capire perchè facessero solo quello, c’erano tanti altri modi di colpire con una bacchetta! Ma al mio ritorno a casa comprai subito “A Love Supreme” di John Coltrane, e tra le tante cose che portavo con me nella valigia c’era un cd che non era mio, era di qualcuno dei ragazzi che avevo conosciuto lì. Era “The Paris Concert” di Bill Evans, con E.Gomez al contrabbasso e Joe La Barbera alla batteria, quello che, assieme al disco di Coltrane, è il disco che ha stravolto e forgiato la mia passione per questa musica, per questo linguaggio. Subito dopo seguii il Perugia Classico, con Roberto Gatto, e dopo quei tre giorni sono tornato a casa con un idea più chiara del jazz e del ruolo del mio strumento in esso. Di seminario in seminario e d’ascolto di dischi, pian piano riuscivo a tirare fuori qualcosa dallo strumento. Ero curioso di tutto, passavo le ore a fare ricerche sulle ritmiche di altre culture, ascoltare nuove musiche, e suonavo, suonavo dietro tutti i dischi che trovavo imparandoli quasi tutti a memoria.”
Seppur tu abbia frequentato parecchi seminari, dici di essere autodidatta. Ci spieghi meglio?
“Nonostante le frequenze a questi seminari, cercavo di “rubare” quel che potevo in ogni situazione in cui mi ritrovavo, avendo sempre un occhio molto critico su ciò che mi circondava. C’è stato anche il problema di un posto dove tenere lo strumento, che ho cercato di supplire, suonando per sei anni circa, su di un rullante in camera, con sopra un pad che qui dalle mie parti chiamano “cappello del prete”, uno di quelli con la gomma rialzata al centro, che si appoggia sulla superficie del tamburo attutendone il suono. Questa pratica mi ha portato ad immaginarmi il set su di un solo pad, quindi il mio piede destro e sinistro erano la cassa ed il charleston, i bordi del tamburo erano delle campane di ride, e tutti i suoni del pad erano i vari tom della batteria… Oltre a queste esperienze ordinarie di seminari e studi privati con Lamberto Ciammarughi e Massimo Manzi ho suonato batteria e qualche percussione in molte formazioni rock, funk e di cantautorato, decidendo ad un certo punto di frequentare il conservatorio, dove, dopo un anno di studi musicologici e uno di studi di percussioni classiche, ho deciso di intraprendere i Trienni di jazz con Bruno Tommaso.”
E nel mezzo di questi seminari, qualche mese fa ecco una sorpresa da parte di un grande del Jazz. Raccontaci tu come hai fatto a suonare come sostituto di Eric McPherson e Roberto Gatto…
“Stavo frequentando dei seminari di perfezionamento con Fabio Zeppetella e un giorno mi chiese se ero libero per tre date a Roma, all’Alexander Platz, per suonare con Aruan Ortiz al piano e Dario Deidda al basso elettrico! Potete immaginarvi la mia faccia… la prima risposta è stata: “Stai scherzando?!” Poi, quando lui mi ha detto di no e mi ha spiegato che Eric McPherson non c’era, Roberto Gatto nemmeno, allora mi sono sentito onorato e ho ovviamente accettato la proposta. Certo, non nascondo che per me era pazzesco avere un ingaggio da lui, nella mia zona suono con dei bravi musicisti, ma questa volta non si scherzava più!”
Sei in continuo spostamento… Quali viaggi più hanno segnato la tua musica?
“Ho sempre percepito la ricerca come componente molto importante ed essenziale per la musica che suono, quindi il passo per coltivare una passione per i viaggi è stato breve. A 18 anni sono andato a Cuba. Ricordo lavoravo come cameriere in un ristorante di lusso a Senigallia, la mia città, e, alla fine della stagione ho subito comperato un biglietto per l’isola. Sono andato con un amico e, dato che ero affascinato dalle loro follie ritmiche, ne approfittai per staccare dalla mia vita impegnativa di quell’ultimo anno, per immergermi nel loro mondo musicale. Sta di fatto che dopo pochi giorni dal mio arrivo, la nostra “pseudo-guida”, davanti alla mia richiesta di trovare un maestro per studiare i loro ritmi, mi rispose: “Andiamo a vedere qui vicino, c’è un signore anziano, so che ha vinto qualche premio in America.” Insomma era il grande Changuito in persona! Io non lo conoscevo, è bastato poco per far crescere a dismisura il mio rispetto nei suoi confronti, e, dopo quasi un mese di lezioni di cinque ore al giorno e delle stupende chiacchierate dove lui mi raccontava dei suoi amici, (John Coltrane, Elvin Jones, Jim Chapin, Dejhonette, Tito Puente), sono tornato in Italia carico di un bagaglio nuovo. E poi ancora New York, dove sono andato solo con uno zaino da campeggio, senza prenotare nulla, da incosciente, ed è stato bellissimo trovare così disponibili grandi musicisti come Paul Motion, Gene Jackson, Ari Hoening e molti altri. Infine l’esperienza africana, dove, oltre ad aver suonato i ritmi tradizionali, ho vissuto con loro, ho condiviso le loro giornate insieme a delle persone stupende che forse ancora sanno cosa vuol dire vivere e, soprattutto, sanno cosa vuol dire il rispetto per il prossimo, solo perché è una persona e respira.”
Se dovessi comporre una musica che descriva l’Africa… e New York?
“Strano ma vero, tra questi due antipodi c’è un comune denominatore molto forte ed è il fatto di essere entrambi una giungla. New York è una città folle, dove tutti corrono, timbrano biglietti in metropolitana e impazziscono per “produrre” la maggior quantità di denaro che possono. In Africa, in Senegal, dove sono stato, le soluzioni economiche che adottano intere famiglie non mi sono mai state chiare. Nessuno lavora, ma le donne il mattino andavano sempre a far spesa al mercato vicino al mare, e tornavano con delle “boule” in testa piene di pesce e verdure. Insomma due mondi opposti, da fiumi di cemento a distese di sabbia. Sono entrambi una giungla perchè in Africa la terra stessa lo è, quindi gli animali e le persone che vivono lì. Realtà pazzesca è quella di NY, dove gli animali di questa giungla sono travestiti da tassisti, da venditori di quello o quell’altro, manager e chi più ne ha più ne metta. Il tutto in mezzo a quei grattacieli, che racchiudono e nascondono. L’assurda “caratteristica” che ho percepito visitando entrambi è quella legata al valore della vita: in entrambe, se tu vivi o muori non gliene frega niente a nessuno. Se c’è una forte differenza, quella la troviamo nelle persone che popolano le rispettive zone. A New York, se muori di fame, sei senza soldi, o sei ferito sul ciglio della strada molto probabilmente rimani lì. In Africa, se solo hai lo sguardo triste, o sei un po’ abbattuto o spaventato per qualcosa trovi subito qualcuno che ti si avvicina chiedendoti come stai o magari, se già sa il motivo, ti si avvicina in silenzio, facendoti percepire che lui c’è senza dirti nulla, anche se ti conosce da due giorni.
Una musica per tutte e due? La posso immaginare sicuramente ricca di ritmo, per quanto rispecchia i tempi della vita dei newyorkesi e per quanto ne hanno dentro in Africa, dove è una peculiarità davvero imbarazzante. Poi, per quanto riguarda armonia e melodia, dipende a cosa pensi delle due.”
Cosa più ami del viaggio, fisico, mentale, musicale, emozionale?
“Penso al viaggio come un’università della vita, dove si impara davvero molto, sotto mille punti di vista. Io ho sempre viaggiato con uno scopo bene preciso, quello musicale, ma tra le cose più belle ci sono sicuramente gli imprevisti: non c’è ricordo più divertente (col senno di poi) di pensare a quando hai perso l’aereo e sei costretto a dire al telefono la fatidica frase: “Mamma ho perso l’aereo!”. Oppure trovare in extremis casa a NY ad Harlem, nello “spanish barrio”, dove in casa e nel condominio ne succedo di tutti i colori, e tu non dormi fino alle cinque del mattino per sentire quello che fanno i coinquilini. O ancora svegliarsi in Africa solo col passaporto ed il sacco a pelo, rendendosi conto dopo pochi minuti che ti hanno rubato tutto… e sei in Africa! Insomma, tutte le esperienze che fai risultano preziosissime, ti insegnano tante cose.”
Progetti in divenire?
“Scrivere ed incidere un mio disco. Finora mi sono dedicato molto all’aspetto ritmico della musica e adesso sto trovando finalmente il tempo per studiare bene l’armonia così, lavorando al piano su alcune idee, spero quanto prima di poter avere un progetto dove poter suonare le mie composizioni. Sicuramente, tra le difficoltà per realizzarlo, sarà la scelta dei musicisti che collaboreranno alla realizzazione: se c’è una componente che secondo me fa la differenza è l’armonia tra le persone che suonano assieme e, di questi tempi, non è così facile trovare il cocktail giusto tra “musicista ideale e persona ideale”, ma sono fiducioso.”
Ti regalano un bel furgone hippy rosso… Per dove parti e che strumenti o strumentisti ti porti?
“Sai che l’ho già avuto? Comunque porterei con me gli amici e metterei la scelta della meta ai voti, in modo da accontentare tutti, come si dovrebbe fare ancora oggi in una repubblica democratica.”
Un pregio e un difetto in generale di chi fa il tuo mestiere?
“Tra i difetti sicuramente metto l’arrivismo e l’egocentrismo. Sottolineo ed evidenzio queste due caratteristiche perché io in primis ho avuto un periodo molto condizionato da queste due “influenze” ed ora che ho passato alcune esperienze importanti, che mi hanno fatto riflettere e capire molto, mi rendo conto che sono le due “qualità”, se così le vogliamo definire, che più di tutte le altre non portano a nulla di buono, né nella vita di tutti i giorni, tanto meno in musica. Elvin Jones sottolineava spesso l’importanza della verità e sincerità delle azioni di un uomo, per far sì che possano essere il più grandi possibili.
Tra i pregi è più difficile trovarne uno in particolare, anche se mi sembra di capire che ogni musicista, preso come singolo, è un universo a sè e spesso buono, caro e disponibile. Poi non è detto che in mezzo al campo, tiri fuori il peggio di sé, ma questo possiamo inserirlo nella sezione “varie ed eventuali” che possiamo trovare in molte persone, musicisti e non.”
Su queste sagge parole non resta che augurare a Matteo di continuare su questa bella strada, nel viaggio musicale della vita…
Melissa Mattiussi