I Lacuna Coil sono tornati. Ed è subito Delirium. Il nuovo progetto di Cristina Scabbia e Andrea Ferro, uscito il 27 maggio 2016, rimescola le carte sonore della band e cala, finalmente, l’asso heavy. Il valore aggiunto è dato dalla chitarra di Myles Kennedy degli Alter Bridge e dalla batteria di Ryan Folden, ospiti speciali di un concept album di forte impatto emotivo.
Sì, perché “Delirium” va oltre la musica, per affrontare seriamente il tema della follia, tra manicomi abbandonati, sofferenze fisiche e psicologiche, immagini oscure difficili da dimenticare. Abbiamo incontrato i Lacuna Coil a Milano, per farci raccontare la genesi di questo importante disco, l’ottavo della loro fortunata carriera, e qualche chicca sul nuovo tour.
“Delirium” segna un bel cambiamento nel vostro modo di suonare. Si può parlare di svolta heavy?
Beh, rispetto a ciò che abbiamo proposto fino ad oggi, sì. Volevamo uscire dal nostro solito cliché. Dopo sette dischi non è facile rinnovarsi. Spingerci oltre sembrava un’impresa impossibile. Ma abbiamo tentato. In studio, se un suono ci usciva heavy, invece di ammortizzarlo nel nostro classico stile, lo lasciavamo grezzo. Anzi, lo spingevamo ancora di più, con batteria e voci più estreme. In altri brani, invece, quando il suono era più ricercato, cercavamo un arrangiamento più moderno. Ecco come sono nati i brani di “Delirium”. Ecco i Lacuna Coil del 2016.
La batteria di Ryan Folden vi ha dato una mano in questo processo di rinnovamento.
Ha decisamente rivoluzionato il sound dei Lacuna Coil. Ha fatto la differenza. Questo è il primo vero disco che registra con noi. È un batterista stilisticamente originale, ha portato una ventata di freschezza che ha cambiato le carte in tavola.
E poi c’è la chitarra di Myles Kennedy degli Alter Bridge.
Siamo amici da diversi anni. Forse non tutti sanno che, oltre ad essere un cantante eccezionale, Myles è anche un chitarrista strepitoso. Lo scorso dicembre, mentre ci scambiavamo via sms gli auguri di Natale, gli abbiamo chiesto di collaborare, magari con un assolo di chitarra, dato che avevamo tanti spazi liberi in alcuni brani. Con enorme sorpresa, ha detto sì. Gli abbiamo mandato alcune demo: alla fine ha scelto “Downfall”. Lo abbiamo lasciato libero di fare e di stupirci. Volevamo che portasse la sua straordinaria personalità.
E di Mark Vollelunga dei Nothing More che ci dite?
Mark suona in “Blood, Tears, Dust”, uno dei pezzi più potenti del disco. Anche a lui abbiamo dato carta bianca e ha scelto un brano che sentiva sulla propria pelle. Il suo è un grande assolo di chitarra.
Perché proprio il sanatorio? Come è nata l’idea di “Delirium”?
Le canzoni del nuovo album attraversano un sanatorio abbandonato per descrivere malattie terribili, tra dolore e inquietudine. Tutto è scattato nel momento in cui abbiamo pensato alla parola stessa, “Delirium”. Si è spalancata la porta dell’ispirazione. Abbiamo capito subito che tipo di atmosfera avremmo voluto nel nuovo progetto, di cosa avrebbero parlato i testi. Siamo stati in alcuni manicomi abbandonati. Entrando nelle stanze, abbiamo visto il nuovo album. Quelle atmosfere pesanti ci hanno colpito, fino a immaginare cosa sarebbe potuto succedere in quelle strutture. Insomma, ci siamo creati il nostro sanatorium personale!
Un viaggio in musica alla scoperta della follia. Ma come va a finire?
Delirium è un posto che accoglie chiunque si sente solo, abbandonato, incompreso. Un luogo in cui si cerca di trovare una cura al malessere fisico e psicologico. Forse una vera cura non esiste. O forse la soluzione è l’accettazione del problema e del male che tenta di divorarci. L’ultima traccia dell’album lascia comunque tutto in sospeso.
Sembra quasi la trama di un film horror.
“Delirium” è pensato come un film. Ogni canzone sembra aprire la porta di una stanza del sanatorio per farci scoprire una malattia diversa. Il disco crea proprio un luogo fisico. Il disco è il manicomio stesso. Ascoltando certi brani, ad esempio, puoi immaginare persone legate al letto oppure piegate dal dolore. Abbiamo fatto paragoni tra la vera malattia, dalla pazzia alla dipendenza in amore, con ciò che ci accade nella vita quotidiana.
Avete fatto una ricerca anche dal punto di vista medico?
È stato inevitabile. Volevamo trattare l’argomento in modo serio. Abbiamo utilizzato volutamente termini medici, legati a queste patologie, per rendere tutto più credibile, per capire anche ciò che abbiamo vissuto in prima persona, come i casi di depressione che si sono verificati nelle nostre famiglie e tra i nostri amici. Ad esempio, in “You Love Me ‘Cause I Hate You”, settima traccia dell’album, parliamo della sindrome di Stoccolma: ti innamori della persona che ti tiene prigioniero, accetti una relazione per te devastante ma di cui non riesci proprio a fare a meno.
Siete già impegnati con il tour mondiale, presto vi vedremo anche in Italia. Qualche anticipazione?
Con un disco così visionario, ricco di immagini suggestive e di atmosfere plumbee, porteremo sul palco una scenografia e un look mai visti fino ad oggi. Colori molto freddi, asettici, atmosfere fastidiose ma terapeutiche allo stesso tempo. Abbiamo tratto ispirazione da centinaia di foto di pazienti degli anni Trenta e Quaranta, dai loro sguardi persi, dall’estrema magrezza dei loro corpi, che sembravano quasi fluttuare sui letti. Non sarà facile trovare un equilibrio tra il nostro vecchio repertorio e i nuovi brani. La setlist sarà molto particolare. Preparatevi ad assistere a uno show più forte e inquietante rispetto al passato.
Grazie a Silvia Marchetti