Venti giorni senza farsi sentire sono decisamente troppi. Stavano iniziando a preoccuparsi il manager Claudio Maioli e il produttore Luciano Luisi. Rientrati dal “Mondovisione Tour”, dopo Campovolo e i festeggiamenti per i venticinque anni di carriera, il Ligabue era sparito, risucchiato nel vortice creativo, che in venti giorni e venti notti di lavoro ha dato vita al suo undicesimo album in studio: “Made in Italy”.
Uscito il 18 novembre 2016, anticipato dai singoli “G come Giungla” e “Made in Italy”, attualmente in radio e accompagnato da un video in animazione che potete trovare online, il disco – un concept, “ma fatto di canzoni”, precisa il Liga, che lo ha definito “una dichiarazione d’amore frustrato verso il mio Paese, raccontata attraverso la storia di un antieroe” – ha trovato il suo seme germinale fuori dall’Italia. “Eravamo in giro per il mondo e nonostante l’euforia dell’avere a disposizione il giocattolo più bello del mondo, cioè fare turismo e allo stesso tempo suonare, ho iniziato a sentire nostalgia di casa, dell’Italia e di tutti i suoi difetti. Vedevo Sydney, Tokyo, Shangai e pensavo: guarda come funziona qui e come invece da noi non funziona niente, poi però la sera sul palco mi trovavo davanti una miriade di italiani e non potevo non chiedermi se fossero andati via perché lo avevano scelto o perché costretti e se anche loro, come me, sentono nostalgia dell’Italia”.
La scintilla che appicca l’incendio, tuttavia, arriva a Los Angeles. La sera sul mitico palco del Whisky a Go Go a respirare l’America del rock di fine anni ’60 e la mattina dopo dritti in studio, quello dei Foo Fighters, col mixer su cui i Nirvana registrarono “Nevermind” lì a disposizione e la sensazione che qualcosa di americano verrà fuori da quella session. E invece no, arrivano “Non ho che te”, “un pezzo italianissimo, come tutti i miei pezzi”, e Riko, “il protagonista della canzone, un uomo di mezza età, che viene licenziato e vive una forte crisi di identità. Il punto della questione, però era che io questa canzone, diversamente da tutte le altre, la cantavo i prima persona. Tornati a casa, quindi, nel buio dei miei pomeriggi mi è venuto il desiderio di provare a capire se quella di Riko poteva essere la mia vita se non avessi trovato uno che pagava di tasca propria il mio primo album, oppure se è un mio alter ego, la mia vita che sta scorrendo parallelamente, dando credito alla fisica quantistica, o semplicemente una parte di me. Chi se ne frega, ho pensato, mandiamo avanti lui”.
Riko – che poi è il diminutivo di Riccardo, che alla fine è il secondo nome del Liga – dice quello che direbbe Luciano, ma è molto più incazzato di lui “perché ha meno privilegi” e una vita così incasinata da non capirci più niente. “Le mie simpatie politiche si conoscono. Sono cresciuto negli anni ’70, credendo fino in fondo all’idea che la politica modellasse questo mondo in modo da essere equo, che gli ultimi avessero delle possibilità e la forbice tra ultimi e primi non fosse aperta in maniera orribile. Il vedere molte di quelle promesse disattese e sapere che oggi il sistema dell’alta finanza, delle banche e che la ricchezza del mondo è in mano a una parte esigua di persone, mentre la povertà invece è così diffusa, per me rappresenta il fallimento non di un sogno, ma di una civiltà”.
È proprio grazie al personaggio di Riko, che Ligabue in questo disco riesce a dare sfogo alla rabbia per una realtà che, nonostante le sue condizioni di vita, indubbiamente più agiate rispetto alla media, entra a gamba tesa nei suoi venerdì – “sicuramente meno spericolati rispetto a quelli di Riko, ma altrettanto importanti” – trascorsi con gli amici, che da oltre trent’anni frequenta nella casa di campagna trasformata nel loro bar dei sogni, dove si incontrano ogni settimana. “Buona parte di loro sono operai e impiegati, ci sono anche degli imprenditori come è normale che sia, ma potete immaginarvi le lunghissime discussioni sulle trattenute, sugli spostamenti della pensione, sull’ingiustizia fiscale, realtà che io tocco con mano tramite loro e vedo che li si gonfia la vena sul collo ogni volta che se ne parla”, racconta il Liga, a cui Riko ha regalato l’occasione di non dover assomigliare a se stesso, realizzando un disco che per le sonorità e la libertà con cui ha giocato coi generi è il più spiazzante della sua carriera.
In “Made in Italy”, insomma, c’è tutta l’urgenza di una narrazione necessaria: la vicenda privata di Riko, un’odissea verso l’autoconsapevolezza, che s’avviluppa e si sviluppa tra la fitta vegetazione di un’Italia alla deriva socio-politica. “Si tratta della piccola rivoluzione di cui tutti ci dobbiamo occupare, quella con noi stessi, l’unica che possa portare a dei cambiamenti anche per la comunità”, spiega il Liga. “L’evoluzione che compie Riko è in quella direzione, non è che non abbia ragione ad essere incazzato per le condizioni esterne, ma giustamente si interroga su quanto il mondo esteriore e quello interiore contribuiscano alla nostra felicità o infelicità. Nonostante non abbia idea di come far sentire la propria voce là fuori, Riko sente che qualche cosa va fatto, e va a una manifestazione, pur sapendo che ha un’incidenza bassissima rispetto ai cambiamenti, ma paradossalmente per questo atto del non stare fermo si scatena un effetto domino e lo porta a decidere di darsi un’altra chance con la moglie con cui era separato in casa e in generale ad acquisire maggiore consapevolezza su chi è e cosa vuole”.
Una svolta verso una vita migliore, forse proprio “Un’altra realtà”, così come si intitola il pezzo che chiude un album, la cui genesi è raccontata nell’omonimo docufilm in onda, assieme al best of di “Liga Rock Park”, il 23 novembre dalle 21 su Fox e FoxLife, e col quale il 3 febbraio Ligabue partirà per un lungo tour nei palasport delle principali città italiane.