Suonano ininterrottamente sui palchi italiani e esteri da più di due anni, da quando cioè è uscito il loro secondo album “These Days”. È da poco uscito un nuovo EP intitolato “Anyway Milkyway” e sono sicuramente tra le band più interessanti uscite negli ultimi anni in Italia e non solo. Stiamo ovviamente parlando degli M+A che l’8 luglio 2015 erano al Flowers Festival di Collegno in occasione della serata organizzata insieme a Jazz Re Found che ha visto dopo di loro esibirsi Dub FX e Bonobo.
Per l’occasione gli abbiamo fatto qualche domanda.
I vostri live sono studiati in ogni particolare, anche oltre l’aspetto musicale, e la resa è senza dubbio ottima. L’unica pecca è quella di essere un po’ troppo imbrigliati. Ultimamente state sperimentando anche delle session acustiche. Da cosa è nata questa esigenza?
M: È nata in realtà da un’esigenza tecnica. Avevamo un concerto a Londra e lo spazio era veramente minuscolo, ci siamo detti: “Ok, dobbiamo inventarci un set ridotto”. Avevamo dei pezzi già scritti, altri li abbiamo dovuti riarrangiare ma la cosa ci è piaciuta parecchio.
A: Sì, abbiamo preparato questo set per Londra, poi per una serie di coincidenze ci è stato chiesto quasi in contemporanea anche dall’Orto Botanico di Padova un set acustico, data che tra l’altro è andata sold out in quattro ore, e allora abbiamo pensato che la gente forse avrebbe potuto apprezzare questo stravolgimento.
A proposito di questa veste, pur discostandosi dal vostro stile, trovo vi si addica molto. Come lavorate per adattare i brani in questa e versione e pensate di poter in futuro sviluppare un live molto più “suonato”?
A: Come detto, alcuni brani già ce li avevamo pronti, altri abbiamo dovuto riarrangiarli ma è un set che esprime un’altra nostra sfumatura e che ci piace molto. Credo proprio che porteremo avanti in futuro questo tipo di show.
La strada intrapresa dopo “These Days” con “Anyway Milkyway” sembra piuttosto chiara. Il salto più netto c’è stato da “Things.yes”, vostro primo album, a “These Days”, sia come suono che per la natura stessa dei pezzi che nei live. Cosa è cambiato?
M: È stata una necessità, un passaggio ragionato. Per la prima volta sentivamo l’esigenza di creare un prodotto, un album con canzoni vere e proprie, muoversi nel pop ma non tanto come genere ma come “leggi”. La differenza principale con i lavori del passato è che, appunto, gli altri dischi erano più una raccolta del tanto materiale che avevamo prodotto. In questo caso per la prima volta abbiamo lavorato proprio con l’obiettivo di voler registrare un album.
Sempre a proposito del vostro debutto, oramai non vi sono più tracce dei primi brani nei vostri set: è una scelta artistica o dettata dalle difficoltà di suonare con una certa coerenza brani molto diversi tra loro? Vorreste recuperarne qualcuno?
M: È vero, il fatto è che da “These Days” era veramente una sorta di altro progetto. Non abbiamo cambiato nome ma per noi è stato veramente l’inizio di una nuova vita.
Avete a più riprese dichiarato di non volervi sentire parte di nessuna scena ma è indubbio che in Italia negli ultimi anni, dopo l’esplosione del cantautorato indie, vi sia una netta sterzata verso l’elettronica. In qualche modo le parole stanno perdendo il loro ruolo centrale a favore di una comunicazione più trasversale in cui è la musica a farla da padrone, con una finalità più ludica. In questo senso vi sentite vicini ad altri artisti italiani?
M: La premessa sulla scena è che la scelta di non appartenere a nessun circuito è dettato proprio dal fatto che non lo facciamo neanche nella vita, siamo proprio così. Poi secondo me c’è della confusione: veniamo spesso etichettati come “elettronica”, ma la nostra sperimentazione è assolutamente sul versante Pop e c’è un po’ di fraintendimento su cosa sai il Pop. Se ricerchi e sperimenti, immediatamente fai elettronica. In Italia questa idea di Pop è totalmente assente, anche per il discorso dei live con le basi e i loop. Poi il discorso non è quello di richiudersi su se stessi ma è difficile trovare altri artisti italiani, soprattutto con i quali potersi confrontare, che abbiamo la nostra stessa idea di musica.
A: Sembra sempre che noi prendiamo le distanze ma non è per scelta.
M: Esatto, manca proprio in Italia. Tu prima parlavi dei cantautori, ma manca il gruppo di chi fa Pop, che sia fatto bene e non schifoso, che sia arrangiato bene, ricercato. O l’idea stessa di una certa forma di spettacolo. C’è un buco in mezzo e noi ne risentiamo moltissimo perché finiamo per stare ai margini.
A: In realtà è proprio un buco da parte del pubblico, manca la cultura dell’ascolto di un certo tipo di musica.
M: Ma anche come critica, per fare Pop devi avere una situazione musicale culturale che stia abbastanza bene e che sia in grado di accettare le contraddizioni che ci sono nel fare questo tipo di musica. Qui dato che va molto male ci si trova sempre a dover dare delle giustificazioni.
La scelta di Sugar. Avete ripetuto più volte che Monotreme non è stata una scelta snob ma dettata da necessità. In Italia nessuno si era proposto offrendovi le stesse possibilità. Qualcosa è cambiato? In Sugar avete trovato ciò che cercavate?
M: Sugar è solo editore, è un discorso che riguarda più noi come autori che noi come band. Ci aiuta molto su determinati fronti ma non va a toccare il fronte di produzione artistica, che rimane legata a Monotreme. Era un’esigenza a fronte di una realtà: siamo una band italiana.