Esce oggi il nuovo disco di Michele Bravi, “Anime di Carta”, terzo frutto di un percorso atipico per un artista uscito da un talent, fatto di scelte difficili, ma consapevoli. Anticipato dall’omonimo singolo sanremese, il disco arriva a tre anni dall’esordio del 2014, “A piccoli passi”, seguito da un periodo buio per il cantautore di Città di Castello, tornato alla luce con l’EP tutto in inglese del 2015, “I Hate Music”. Dopo il quarto posto a Sanremo e la riconferma del successo del brano, attualmente al quarto posto in classifica, Michele è pronto a completare il suo percorso di rinascita, con un disco intimo e personale, benché scritto per lo più a quattro mani con autori della caratura di Federica Abbate, Cheope, Alessandro Raina (Amor Fou), Niccolò Contessa (I Cani) e Antonio Di Martino. Tredici tracce senza filtri, nate nell’arco di tre anni difficili sul piano sentimentale e che segnano il ritorno all’italiano, come ha spiegato Michele, emozionatissimo, in conferenza stampa mercoledì a Milano.
Genesi dell’album. “Ho iniziato a scrivere questo disco tre anni fa e l’ho chiuso solo il 18 di dicembre. Avevo bisogno di capire il modo in cui la musica poteva raccontarmi e come avevo bisogno che mi raccontasse. È stato un lungo percorso lavorativo e umano. Quando lo dico mi sembra sempre un po’ di tirarmela, ma lavorando con la creatività lavoro e vita personale si incontrano e, quando ho scelto di fare il percorso che ho fatto, ho scelto di iniziare a pensare tanto a me stesso, anche egoisticamente. Cos’è successo? Ho perso una persona a cui tenevo tanto. L’ho presa bene come potete vedere, ci ho fatto un disco – ride – e avevo bisogno di trovare il mio modo per uscirne. Non so se ci sono riuscito del tutto, visto che sto ancora così, ma questo disco è stato una seduta di psicoanalisi con me stesso”.
“Anime di carta”. “Dall’ambito familiare in poi ho dei rapporti umani molto particolari, quindi non ho mai la percezione di com’è vivere insieme la vita, anche senza parlare per forza di storie d’amore. Volevo capire perché avessi questo disagio e quello che ho capito è che siamo tutti anime di carta. La carta è quel materiale accessibile a tutti, quindi non è così prezioso, però è importante, perché là sopra ci scrivi la tua storia e se sei fatto di carta la tua storia non te la puoi strappare di dosso, ti fai male, perdi un pezzo di te. Quando inizi ad attaccare la tua vita a quella di qualcun altro, poi, in qualche modo devi prenderne la forma. Ci sono tanti modi per farlo puoi diventare un origami bellissimo, puoi accartocciarti, rovinarti, prendere fuoco, non sai mai cosa può accadere, ma l’alternativa è rimanere un foglio bianco, senza forma e contenuto. Io ho trovato i miei contenuti quando ho smesso di essere auto riferito e mi sono affacciato sugli altri, capendo che le scelte non le prendevo più da solo, ma dividevo la mia vita con quella degli altri”.
Ritorno all’italiano. “Ho sentito tanto lo stacco nel mio descrivermi attraverso la musica, prima ero molto più stabile, energico, forte, mentre ora sono molto più fragile, ma allo stesso tempo sono molto più convinto di quello che dico, perché ho tolto tutti i filtri e quando parlo di questo disco, parlo veramente della mia vita. Avevo bisogno di dire le cose come stanno, per questo ho scelto l’italiano. Sono sempre uscito come il bravo ragazzo, quello un po’ timidino e che si commuove, ma mi rendo conto che nella vita sono stato anche un grandissimo stronzo e nel disco c’è anche un pezzo che parla di sesso orale con una ragazza (“Solo per un po’”, ndr). Avevo bisogno di togliere tutta quella sovrastruttura per cui non si possono dire certe cose in una canzone, io canto quello che vivo e vivo quello che canto, nel bene e nel male. Anzi, spero che questo disco possa dividere. Ho perso la ridicola ambizione di piacere a più persone possibili. Per me la musica è un modo per sentirmi meno solo e per incontrare tutti quelli che, come me, pensano che là fuori ci siano solo anime di carta”.
I due brani in inglese. “Non voglio rinnegare il vecchio disco, ma a un certo punto ho capito che mi stavo nascondendo dietro una lingua che non è la mia e in cui io non penso. I due pezzi in inglese qui sono subito dopo “Pausa”, un pezzo che parla del voler chiudere una storia senza riuscire però a trovarne la fine. A livello di senso generale quindi l’inglese simboleggia la protezione che cerchi in quei momenti, la possibilità di mettersi un filtro”.
Rapporto con gli autori. “Prima di iniziare a scrivere con questi autori li ho frequentati. Ero affascinato dalla loro capacità di raccontare le cose attraverso la musica e il punto fondamentale è che alla fine le canzoni sono state una conseguenza della voglia di stare insieme. Non avrei mai scelto i miei co-autori per sfornare hit. Una volta che ti sei preso il rischio tanto vale sbatterci la faccia fino in fondo e infatti qui ci sono autori anche un po’ impensabili per il pop, da Contessa de I Cani in poi”.
Il disco della rivincita? “La realtà dei fatti è che non me ne frega un cacchio. Ho imparato a scindere l’aspetto discografico da quello artistico. Quando feci riferimento a chi mi disse a vent’anni che ero “discograficamente morto”, non volevo attaccare il mondo della discografia, ma chi va a dire una cosa del genere a un ragazzo di diciannove anni, che per la prima volta affronta tutto questo da solo, è una persona di merda! No, questo disco non è una rivincita, significherebbe continuare a ruotare attorno a loro. No grazie! Questo disco è un nuovo inizio”.
In attesa dei due concerti del 20 maggio al Fabrique di Milano e il 21 al Viper Theatre di Firenze, i fan potranno incontrare Michele Bravi in una delle tappe dell’instore tour partito oggi da Napoli.