Mikael Åkerfeldt (Opeth)

Incontriamo il leader della band in occasione del concerto milanese, eccovi i passaggi migliori della mezz’oretta trascorsa con lui.

4 dicembre 2008

Come sta andando il tour?
Molto bene direi, ottimi show, e un sacco di persone che vengono a vederci (la data milanese infatti è andata sold out, ndr).

“Watershed” è uscito già da qualche mese: ha ricevuto feedback positivi in sede live?

Certamente, da quello che ho potuto vedere; la maggior parte ha dato responsi positivi, anche se come sempre c’è qualcuno non apprezza completamente. Quando suoniamo dal vivo ci sono spesso persone che chiedono a gran voce i nuovi pezzi, il che è sempre un buon segno.

Potresti dirci di cosa parla “Watershed”?
Non è un concept, ma parla di temi personali; nel passato ho già scritto di tematiche a me molto care e vicine, ma mai quanto questa volta. Da subito ho deciso che non ne avrei voluto parlare troppo, quindi di più non posso dirti.

Quando ti metti a comporre nuovo materiale, pensi mai alle reazioni che i fan avranno, o ti concentri solo sui tuoi intenti artistici?
Si, a volte penso alle reazioni possibili, ma quando ne esco con qualcosa di buono penso sempre che qualcuno non apprezzerà e viceversa, quindi fin dai primi tempi ho finito sempre col concentrarmi su quello che mi piace e ritengo valido.

Analizzando la tua discografia ho notato un lento ma costante approccio a un sound sempre più progressivo, e credo che in “Watershed” questo fattore sia completamente sviluppato. Concordi?
Direi di si, quando uscì il primo disco eravamo uno dei gruppi più progressive dell’epoca rispetto a chi ci era intorno e suonava death metal. Però non è una mai stato voluto il cercare una categoria nuova, se ci definiamo progressive è solo perché abbiamo incorporato più stili, non ci siamo seduti attorno a un tavolo con l’intento di diventare un gruppo che non suona più metal. Penso che nonostante tutto siamo ancora un gruppo metal, col passare degli anni siamo stati influenzati da molteplici cose che ci hanno fatto suonare diversamente. Se  non hai paura di sperimentare è nell’ordine naturale delle cose che il tuo sound venga modificato; quando scrivo la mia unica speranza è di venire fuori con qualcosa di buono, e progressive non significa automaticamente buono.

Da dove viene la tua passione per la musica anni settanta?Sono stati i tuoi genitori a farti ascoltare i Genesis o King Crimson o hai fatto tutto da solo?
I miei genitori sono nati negli anni ’40; quando, negli anni ’70, è esploso questo genere erano già sposati e avevano due figli, mia sorella maggiore e me. Erano troppo vecchi per cose simili, la cosa più progressiva che possono mai aver ascoltato sono stati i Beatles, ho scoperto tutto da solo crescendo.

So che ascolti moltissima musica prog Italiana degli anni ’70: quali sono i tuoi gruppi preferiti?
I miei preferiti sono i “Circus 2000”, band molto oscura ma molto valida. tantissimi dei gruppi italiani di quel tempo hanno sonorità molto pesanti, molto di più del resto d’Europa, ed è strano pensando in comparazione agli anni ’80, quando sono spuntati gli artisti pop come Eros Ramazzotti!(ride)
In ogni caso di band prog che conosco e apprezzo ce ne sono moltissime: “Museo Rosenbach” è un’altra delle mie preferite, anche “Balletto di Bronzo” è fantastica, ci sono i “J.E.T.”, hanno prodotto un solo LP che devo ancora trovare, suonano davvero pesante, quasi metal; un altro artista interessante è Antonius Rex e i suoi “Jacula”, un gruppo prog-rock con tematiche horror; conosco anche gli “Osanna”, i “PFM” o i “Goblin”…mi fermo qui se no continuo all’infinito! 

La tua musica è molto oscura e tetra, ma quando sei sul palco diventi ironico e fai battute: come mai questa dualità?
Non saprei, è una cosa che mi sento semplicemente di fare. Non l’ho mai pianificato, ma ormai è diventata una specie di consuetudine sfuggita al mio controllo, gli spettatori si aspettano che faccia battute o scherzi con loro. La verità è che un lungo tour diventa molto più sopportabile quando ti diverti e non vedi tutto in modo troppo serio; la musica è estremamente importante per me, ma quando si parla di vita on the road il discorso è diverso. Io preferisco poter interagire e rendere partecipe il pubblico, non avrei soddisfazione nel suonare davanti a gente immobile che applaude e basta. Ovviamente scherzare elimina l’aura di serietà e professionalità da un concerto, qualcuno di certo lo preferirebbe, ma a me sta bene così.

Ultimamente molti gruppi come Metallica e Slayer propongono in sede live un intero album. Hai mai considerato questa opzione?
Sicuramente, ne abbiamo già parlato. Anche se mi sembrerebbe strano basare un’intera scaletta solo o quasi su un solo album è una buona idea, però non so se capiterà mai, lo vedo bene per un’ occasione speciale, chissà, magari in futuro….

Fino ad ora avete pubblicato nove album: questo significa che avete una vasta scelta quando si tratta di scegliere quali pezzi suonare. In che modo decidete una scaletta?
Scegliamo quelli che sappiamo suonare bene, che io riesco a cantare bene e che gli spettatori apprezzino. Certe canzoni non lasciano quasi mai la scaletta. Ci piace inserire alcune canzoni più oscure anche se poi in molti non le riconoscono perché pensano sempre a quelle più famose. Cerchiamo di mischiare il più possibile, facciamo dei classici e pezzi nuovi, alcune canzoni rimangono nella setlist per un anno o due, poi vengono scambiate con altre dallo stesso album.

A quanto pare sei un ottimo amico di Steve Wilson (Porcupine Tree), Mike Portnoy (Dream Theater) e Devin Townsend. Non pensi che se riusciste a portare avanti un progetto musicale tutti insieme potrebbe uscirne fuori qualcosa di davvero notevole e “diverso”?
Vedi, tutti loro sono maniaci del lavoro, finiscono un progetto e già sono a pensare a quello successivo; io non sono così. Quindi, se volessero fare qualcosa insieme a me devo aspettare che siano loro a chiamarmi. Se capiterà bene, se non capiterà pazienza, non è qualcosa di cui sento il bisogno.

Come ti sei trovato a cantare su “The Human Equation” di Lucassen? Quali sono le differenze, in termini di stimoli, fra cantare i tuoi testi e le tue melodie ed eseguire materiale scritto da un altro? Ripeteresti l’esperienza?
Non saprei, è una cosa totalmente differente lo scrivere e poi cantare, piuttosto che cantare quello che ha scritto qualcun altro; nel primo caso puoi sentire il tuo tocco personale, nel secondo sembra più il lavoro di una macchina che prende ordini. Mi sono divertito, ma non quanto quando canto le mie canzoni.

Essendo fra i responsabili dell’evoluzione del metal, che differenze vedi col passato e che evoluzioni puoi immaginare per il futuro?
Non saprei. Non penso che gli Opeth siano stati così importanti per il panorama né che abbiano cambiato gruppi. Non certo grandi nomi, al massimo qualche band minore agli esordi potrebbe essere stata influenzata da noi, ma è tutto qui. Piuttosto abbiamo cambiato le persone che ascoltano metal a livello di mentalità. Abbiamo fatto capire loro che ci sono altri stili, e che questi possono aiutarti a sviluppare i tuoi gusti per avere una visione più completa della musica. Non abbiamo mai avuto riconoscimenti da nessuno, anche perché siamo difficili da inquadrare. Abbiamo parlato con gli Slipknot un paio di anni fa, erano interessati a sentire la nostra musica e qualcuno gli ha passato “Damnation”; ci hanno detto che non era metal, non capivano. Molti dei nomi grossi sono così dentro il loro stile che gli è difficile vedere al di fuori della loro sfera. Non mi preoccupa troppo, mi piace pensare di aver creato qualcosa di unico, che piaccia ai fan; non penso avremo mai un grande riconoscimento, ma sinceramente non mi importa.

Nicolò Barovier

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