17 giugno 2008
(Trattandosi di un personaggio piuttosto eclettico e particolare, Natasha Khan merita un articolo altrettanto fuori dagli schemi, quindi bando al classico schema domanda-risposta e via libera a una sincera descrizione di come si è svolta l’intervista.)
Munita di centrifugato di carote e bottiglietta d’acqua minerale, Natasha arriva all’appuntamento candida ed eterea come una ninfa leggiadra a metà tra l’hippie chic e il metropolitan-squaw.
Percepisco una sua occhiata di riprovazione verso la sigaretta che sto fumando avidamente e un suo sussulto al mio gesto di gettare il mozzicone per terra; per una frazione di secondo mi sento tremendamente in colpa.
Mi dice che vuole stare all’ aria aperta quindi decidiamo di passare i nostri quindici minuti di intervista nella cornice bucolica (per così dire) del Parco Sempione, tra i bambini che giocano e gli addetti ai lavori dell’Arena Civica, luogo ospitante del concerto dei Radiohead. Sarà proprio Natasha Khan con le sue Bat for Lashes ad aprire il concerto.
Il loro “Fur and Gold” ,vera rivelazione nel panorama dell’alternative music di questo periodo, è una miscela di atmosfere esoteriche e mistiche che rievocano le foreste del nord narrate dalle fiabe dei fratelli Grimm e cantate dall’evanescente Bjork.
Di una spiritualità contagiosa, Natasha sembra voler dare una motivazione trascendentale a tutti gli argomenti che cerco di sfiorare con le mie domande, gesticola con frenesia, noto che c’è qualcosa di assolutamente contrastante in lei, una nervosità negli atteggiamenti che non corrisponde al suo modo di parlare pacato e tranquillo.
Comunque, sedute all’ombra di un arbusto, iniziamo un’intervista che piano piano assume i contorni di una vera e propria conversazione, a tratti tipicamente femminile (le faccio notare che adoro la sua cintura a strisce di pelle colorata e le chiedo dei suoi due tatuaggi sui polsi).
Per prima cosa però voglio sapere quanto la sua musica si ispiri all’arte, dato che i testi delle sue canzoni sono tutti accomunati da un’incredibile capacità di stimolare il senso visivo, di portare la mente a dipingere panorami bui ed ancestrali animati da creature fantastiche.
“Ho frequentato una scuola d’arte anni fa, ma più che dai dipinti, ho preso ispirazione dal cinema e dalla fotografia. Fin da piccola adoravo tutti quei film fantasy tipici degli anni 80, come Labyrinth, i Goonies o tutti quelli di Steven Spielgberg. Credo siano frutto di un’immaginazione davvero impressionante, un’immaginazione che si lega all’anima e che rievoca una simbologia sacra, spirituale, che riporta alla vera essenza dell’uomo. Ho voluto anche evocare quelle atmosfere narrate dalle fiabe, dalle storie archetipe e dalle leggende, vero linguaggio universale tra le persone.”
Annusando nelle sue parole un certo riferimento all’argomento religioso, le chiedo se si ritenga una persona credente: “Più che religiosità la mia è una forte spiritualità derivante dal mio rapporto con la natura, in cui tutto è connesso, niente è lasciato al caso ma fa parte di un enorme cerchio in cui ogni cosa ha un suo ruolo, un suo spazio. C’è un senso in tutto. Anche nella musica. A volte ti chiedi come mai un certo tipo di musica ti affascini; io credo che sia perché quella musica ti mette a contatto con la tua parte più profonda dell’anima, quella che non conosci totalmente.”
Le parole escono veloci, rapide, lo sguardo di Natasha sembra perso nel vuoto mentre le mani continuano a creare onde, cerchi, disegni voluttuosi che si perdono nell’aria. Cerco di riportarla alla terra ferma, alla realtà del suo album, del suo tour, della sua infanzia (che ha passato in Pakistan ndr): “E’ da quando ho 8-9 anni che scrivo musica, ma è solo dai 20 che ho iniziato a maturare musicalmente e a cercare di creare qualcosa che riunisse il mio essere attratta dall’elemento visivo alla musica, che unisse i due sensi. Ho sperimentato un po’ di tutto, ho creato diversi video e lavori artistici che contenessero tutto ciò che mi appassiona, finché sono riuscita a trovare la combinazione giusta…ed è nato “Fur and gold”. Credo che il titolo sia evocativo, che rappresenti bene il contrasto che c’è in me, la parte più primitiva, più animalesca, con quella più umana, più razionale.”
Le chiedo allora dei suoi shows, delle piccole pièce teatrali a la Ziggy Stardust, quando ancora non era morto e inscenava con i suoi Spiders From Mars le più audaci e sensuali scenografie che la storia del rock abbia mai conosciuto. Il suo viso si illumina per un attimo,”Adoro David Bowie, è un stato un vero maestro in questo, uno dei pochi se non l’unico che abbia combinato nella maniera più spettacolare l’elemento scenico con quello musicale. Mi piace però anche la teatralità di Brian Eno, e soprattutto la femminilità impalpabile di Kate Bush, vera icona per me..”.
È ora di interrompere la nostra intervista, il tempo è scaduto ci informano. Giusto il tempo di farle la domanda più scontata del mondo, cioè come ci si senta ad aprire il concerto dei Radiohead. Ovvio che è felice, è una grande opportunità per la band. Ci alziamo, mi saluta, e con un sorso veloce finisce il centrifugato di carote.
Io invece mi accendo una sigaretta e mi dirigo verso la metropolitana, lontano dal magico mondo incantato di Natasha Khan.
V.L.