A ridosso dell’uscita de “La Capanna dello zio Rock”, il disco che ripercorre la carriera dell’ex leader dei Timoria e lo riporta nel mondo discografico dopo quattro anni di assenza, Outune ha incontrato Omar Pedrini, personaggio eclettico e versatile, che parla di vini come parla di vita e che vede la musica come l’unione sentimentale delle due cose. Un’intervista lunga, due ore davanti ad un personaggio che della musica ha fatto solo una parte del suo essere artista, come le infinite righe qui sotto dimostreranno. Non capita tutti i giorni di ricevere parole così sincere e tantomeno una bottiglia di Barbera di Montebruna di Braida (la Barbera prego, ndr) con all’interno il disco del cantautore bresciano.
Una prima curiosità: questa collaborazione con l’azienda Montebruna da dove arriva?
Ogni tre anni questa azienda di Barbera dedica spazio a scrittori e musicisti, che scrivono un poema o una poesia che viene pubblicato sulla contro etichetta della bottiglia. Il primo è stato Bruno Lauzi, un vignaròn che ho conosciuto personalmente e che produceva una barbera buonissima, davvero sincera. Poi è arrivato il turno di Facchinetti dei Pooh e di Giorgio Faletti, che mi ha passato il testimone. Sono sempre stato legato al mondo dell’enologia, su “Fino in Fondo” dei Timoria ho scritto un inno alla terra ed al vino, che alla fine è il linguaggio della terra…raccoglie le immagini di un anno e le racchiude in qualche centilitro di storia.
Ecco perché oggi, nonostante la tecnologia, il vino è ancora impenetrabile. Il mio amico Josko Gravner mi raccontava di un’annata in cui una grandinata improvvisa rovinò tutto intero raccolto. Il padre sorrideva in mezzo ad una manciata di persone disperate, perché vedeva i chicchi finire per terra. Disse al figlio preoccupato, che la natura ha sempre dato tanto e che ogni tanto le si deve restituire qualcosa. Pasteur poi, disse che il vino è la parte filosofica del pasto. Come vedi il vino è un mondo affascinante ed unico.
Ci sono tante analogie tra il vino e la vita dentro alla tua musica ed alla tua arte…
Certo, la vita è come un raccolto. Il racconto del prossimo anno, del prossimo giorno. Per me il futuro è domani. Guardo alla mia carriera e vedo che ho fatto 16 album, direi che è davvero parecchio per un quarantaduenne. Sembra il percorso di qualcuno con vent’anni di più. Un tempo ero il ragazzo che nel ’90 esordiva coi Timoria, che poteva sembrare velleitario, poco simpatico. Il pubblico italiano non era pronto a molte cose, tieni presente che stavamo facendo nascere il rock italiano. All’epoca, vuoi per gli studi di liceo classico, ero già appassionato di arte. E credo di avere da subito mostrato la mia cifra stilistica. Sono davvero fiero della coerenza della mia carriera, e “La Capanna dello Zio Rock” la racchiude perfettamente. La musica: la musica è semplicemente mia moglie, nei miei vari interessi è ormai un laboratorio dove sperimento. Nei ’90, dal palco, leggevo poesie e mi ridevano dietro…ora sono in molti a farlo. Comunque ripeto, sono davvero orgoglioso del mio percorso ed ho appena firmato il mio sesto contratto discografico.
Dici che con questo disco ti metti a nudo…però, immagino ricorderai, ad un certo punto, ti sei messo a nudo nel vero senso della parola.
Già…per Rolling Stone. E’ una cosa che ha fatto molto clamore, ma per me credimi è stato fin troppo naturale. Mia madre era una hippie. Sono pieno di ricordi a otto anni di concerti di Nomadi, Vecchioni, Guccini, ricordo perfettamente l’odore acre della marijuana, i concerti di De Andrè, i sandali indiani. Sono cresciuto in mezzo a questo ed in mezzo alla natura, facendo il bagno nudi al lago, girando per casa senza vestiti. Quando Rolling Stone mi ha chiesto di spogliarmi, ho accettato, perché si tratta di una rivista seria, con cui puoi permetterti di giocare. Era una sorta di prova di coraggio, per prendersi un po’ anche in giro. Senza contare che sono una persona che non conosce il grigio. Per me non è stata una trasgressione, se pensi che Iggy Pop l’ha fatto almeno vent’anni fa. Gli scatti poi sono stati fatti poco dopo la mia separazione e la morte di mia madre, dopo mesi in cui mi ero ritirato in un monastero. Mi sono concesso di fare un po’ il “coglione”, anche se in quell’intervista ho raccontato cose davvero pesanti sulla mia carriera e sulla mia vita privata. Però gli scatti sono stati divertenti ed il vino ci ha aiutato parecchio, non te lo nego.
Un altro appassionato di vini come te è Guccini, che ha appena compiuto settant’anni.
Sì, ne approfitto per fargli gli auguri! Ho un ricordo di mia mamma, che quando ero bambino ascoltava “Il pensionato” e ogni volta piangeva perché le ricordava suo padre. Io non volevo che piangesse e le dicevo di non ascoltarla più. Sono cresciuto in una famiglia di musicisti: mia madre era una cantante, mia nonna una chitarrista figlia di un liutaio che costruiva mandolini; una tradizione della nostra famiglia era quella di regalare uno strumento al compimento dei cinque anni. Mia nonna mi diede una chitarra dicendomi “Con la musica non sarai mai da solo.” Ed aveva ragione: dove chiama la musica, un musicista corre. Solo che un tempo ci pagavano per farlo.
Oggi invece c’è una forte crisi: come vedi questa situazione?
Molto bene. La rete è una risorsa che toglie risorse alle multinazionali, che ora non investono più in un mercato che sta morendo. Questo ha fatto anche sì che i costi diminuiscano molto. Un disco mio o dei Negrita, per parlare di amici, oggi costa all’incirca quanto quello di artisti emergenti. Oggi il cheap domina e crea spazi. Per quanto mi riguarda prima parlavo del mio sesto contratto: sono fiero di fare parte di Carosello, una delle due indipendenti italiane, mi sento come un artigiano…
Un artigiano il cui nome è anche circolato tra i futuri giudici di X-Factor…
Sì, è vero. Ma solo perché sono un dipendente RAI e la RAI ogni tot mi chiede di fare qualcosa. Ho iniziato come autore, poi sono stato anche conduttore di “Gamberock” (che ha avuto ben cinque repliche), una cosa da pazzi. Il mio nome è girato, ma sapevo che non era un’ipotesi concreta, dato che ho sempre e solo parlato con RAI e per quel genere di programmi si deve parlare con Magnolia, nel caso di X-Factor. Si trattava solo di una voce di corridoio…non credo nemmeno sarebbe nelle mie corde. E’ un mondo davvero diverso dal mio: vedi tutti piccoli Renga, piccole Giorgia. Cantanti meravigliosi, alcuni sono davvero bravissimi. Ma sono fuori dalla mia ricerca sonora. Io vivo più per le emozioni, per cantanti sinceri, che cantano dall’anima. Penso a Kurt Cobain, quando è scomparso nel ’94 ho pianto. Aveva poca estensione, poca intonazione, ma era un poeta ed un’artista più di quanti mai potranno essere. X-Factor tende a creare artisti a termine, che durano una stagione e quella successiva devono già sparire per lasciare spazio a quelli nuovi, che portano con sé il 25% di share. Non è davvero il mio mondo. Penso ad una ragazza come Giusy Ferreri, forse la migliore uscita da X-Factor, che però ora è sparita…dopo avere fatto una cover del grande Rino Gaetano che non suonava sincera nemmeno a lei.
Torniamo al nuovo disco, due inediti più un insieme di brani da solisti al periodo Timoria, riregistrati e rivisti. Stai progettando qualcosa dal punto di vista dei concerti?
In estate farò qualche live, con l’obiettivo di iniziare una tournè in autunno in club della grandezza che piace a me, dove si può stare vicini ed il calore col pubblico è tantissimo. Al momento mi sto testando dal vivo, visti i miei problemi di cuore, mi esibisco con i medici dietro al palco. Per il tour autunnale ci sarà una bella formazione, tre chitarre elettriche, nessuna tastiera. Insomma saremo davvero rock.
Qual è stato l’insegnamento più grande che hai ricavato dalla tua tragedia?
Sicuramente non rovinerei più il mio corpo come ho fatto per vent’anni…però ti dico una cosa; purtroppo mia madre è mancata da poco per il mio stesso problema e ho scoperto che il male è una cosa genetica. E’stato bruttissimo perché se lo avessi scoperto prima forse avrei potuto fare qualcosa. Ho il cuore più grande del normale, questo è stato il problema di tutto. Mia madre se ne è andata e io no. Quando ho chiuso gli occhi ho pensato alla mia vita, non ho visto luci in fondo a tunnel o santi, ho visto la mia vita e mi sono sentito a posto, convinto di avere fatto e detto tutto quello che dovevo. E’ assurdo, facciamo un tagliando annuale all’auto ma non al nostro cuore. Ora parlo da amico, spesso tendiamo a fare prima le cose urgenti rispetto a quelle importanti: ed un giorno ce ne pentiamo. Sono convinto che molti di noi delle quindi cose che devono fare in un giorno ne concludono solo dieci…e quelle rimaste indietro sono puntualmente una bella parola verso un amico, un padre o un bel gesto ad una persona a cui vogliamo bene. E’ così triste.
Come hai scelto le canzoni del disco?
E’ stato un autentico casino. Volevo scegliere una canzone per album, poi al momento di guardare i dischi d’oro mi sono accordo che non era possibile tralasciare “Senza Vento” o “Sangue Impazzito”…mi avrebbero fucilato. Ed inoltre ho avuto anche la possibilità di riprendere canzoni che non hanno fatto troppo breccia nel corso della mia carriera, come “Lulù”.
In questo disco canti anche le canzoni dei Timoria che nelle versioni originali erano interpretate da Francesco Renga…
Sì e non ti nego che sia stata un’impresa. Lui è maestro di bel canto, io sono un rozzo cantante con la voce sporca. E’ davvero una dicotomia…siamo paralleli. Però è stato bellissimo riappropriarsi anche localmente dei brani che avevo scritto io per i Timoria, mi ha aiutato a sentirli ancora più miei. Ho potuto dare la mia sfumatura più grunge, più maledetta a brani come “Sangue Impazzito”, che è nata quando dopo due giorni di vagare sotto effetto di sostanze mi sono trovato davanti ad una chiesa sotto lo sguardo dei praticanti che entravano dal portone e mi fissavano tra l’incredulo ed il disgustato.
Cantare ad un certo punto, per tornare al tuo aneurisma, ha rischiato di essere solo un ricordo per te.
Sì, ed è stata la mia vera morte. Un brano come “Shock” parla di questo, della mia situazione quando paralizzato in ospedale rispondevo alla domanda “Cosa fai?” dicendo che mi limitavo a guardare sotto le gonne delle quattro bellissime infermiere che mi assistevano. Era uno scherzo ma anche la verità, un modo di ritrovare la speranza. Ora posso cantare, ed è come rinascere.
Sul disco è contenuto “La Follia”, un brano che inizialmente avevi scritto per proporlo a Vasco Rossi.
Sì, quando ho temuto di non potere più fare il musicista a 360 gradi mi sono proposto almeno di potere scrivere e ho deciso di puntare in alto, ai miei miti. Mi è dispiaciuto che Vasco non l’abbia fatta sua, avrei rinunciato a tutti i diritti pur di sentirla cantare da lui, lo giuro. Però adesso è un brano mio ed è stato uno dei più accolti al mio ultimo concerto. Un altro brano pieno di significato sul disco è “Non è divertente”, scritto per il film di Avati in cui ho avuto una parte. Quel brano è nato ispirato dalla sceneggiatura, quando mi sono ritrovato a dovere parlare di Milano e di come la vedono i miei occhi. In quel momento ho visto un’analogia con la Los Angeles di Charles Bukowski, se in un passo lui dice “com’è bello vivere in America quando il tuo cavallo sta vincendo” io nella canzone dico “Come è bella Milano quando sei un vincente, quante feste ad invito, quante facce contente”.
Lavorare con Pupi Avanti, un altro sogno realizzato.
Assolutamente. Il film di Pupi, “Il figlio più piccolo”, è semplicemente bellissimo…affronta il tema della felicità attraverso gli occhi della Milano bene. Dopo una relazione durata cinque anni ho visto in tutti i modi quel mondo e non è un caso che “Non è divertente” sia stata scritta un anno prima di Vallettopoli. Comunque consiglio davvero di vedere quel film perché è una lezione di vita dal primo all’ultimo minuto. Mi sono ritrovato in ogni scena…da ragazzo anche io ero il ragazzo che alle feste, mentre tutti ballavano e flirtavano, se ne stava con il gomito appoggiato al bancone e beveva un po’. Così come sono quello che fa la coda in posta o dal dottore, mentre i furbi gli passano davanti. Io sono l’imbecille, al quale però basta un buon Franciacorta e la compagnia di un amico per essere felice.
L’ultima: l’Omar Pedrini ventenne nel 2010 cosa farebbe? Cederebbe alle lusinghe della tv musicale?
Non lo so, ma è certo una possibilità in più. In realtà quando guardo i talent show penso sempre al nuovo musical dei Queen, quando all’inizio il narratore descrive l’epoca dei reality show, dove grandi menti decisero che la musica era illegale e proibirono di suonare e cantare. Tutto cominciò con X-Factor, costruendo i famosi cantanti a termine di cui parlavamo prima. L’Omar Pedrini di oggi non so cosa farebbe, però so che l’Omar ventenne andò a suonare al Tenax di Firenze gratis, quando già i Timoria erano qualcuno, dormendo in un furgone prestato da un amico muratore e per questo pieno zeppo di calce. Lo stesso Omar quella sera ringraziò i proprietari del locale per l’opportunità ed il panino e la birra offerti.
Anche Springsteen ha cominciato così…
Ed oggi non a caso è Il Boss; lui nella sua magnificenza, io nella mia modestia abbiamo qualcosa in comune. Robert Plant diceva che l’artista lo riconosci dall’odore, l’odore della dignità e del non vendersi. Oggi invece va molto di moda un altro sport, quello che si fa sotto ai tavoli, in ginocchio…vanno di moda le raccomandazioni immeritate, che annullano quelle giuste, fatte quando una persona già avviata crede in un ragazzo con talento e lo raccomanda per trovare uno spazio meritato. In realtà io non sono avverso ai talent show, ma vorrei che fossero fatti bene, con onestà. Purtroppo nel loro dna è già scritto che non nascerà mai un vero artista.
A questo punto devo chiederti un’ultima cosa. La fruizione della musica è evidentemente cambiata e con essa l’essenza stessa delle note…
Sì, ma per me non è un dramma. E’ un semplice divenire delle cose, guardo sempre avanti, mi ripeto. Forse era più bello un tempo, quando un amico comprava il nuovo disco dei Pink Floyd e si correva da lui in stanzetta, facendo gli scemi con chitarre fatte d’aria o godendoci dei passaggi di Gilmour da brivido. Però ad esempio mio figlio si è scaricato “Animals” dei Floyd e l’ho trovato da solo nella sua camera, con le cuffie, a lasciarsi trasportare. Ecco la differenza: l’ascolto. Oggi si ascolta la musica da soli…non si condivide più. Le cuffiette isolano e ci rendono soli. La parola dello scorso millennio era comunicare, quella di questo forse potrebbe e dovrebbe essere condividere.
Riccardo Canato