È uscito il 13 ottobre 2014, su etichetta Universal Music, “Musicismo”, l’album di debutto di Parix. Quattordici brani inediti, tra cui i singoli “Soffrire con Stile” e “Il Mostro”, nei quali il polistrumentista, autore e cantante bolognese condensa un’esperienza musicale intensa ed eterogenea, ai confini tra rock, hip hop e una sorprendente predisposizione alla melodia. Un viaggio nel cosmo creativo dell’artista, che lascia piacevolmente stupiti per l’urgenza e la naturalezza che ne regolano l’esistenza.
Sei un one man band, autodidatta e hai suonato ogni singola nota dell’album: come ti sei avvicinato alla musica da strumentista ed in seguito al mondo dell’hip-hop?
Ho iniziato a suonare il pianoforte da piccolo e grazie a mia madre, che mi faceva ascoltare i Rondò Veneziano, mi sono appassionato subito alla classica. Poi sono passato alla chitarra quando avevo le mani un po’ più grandi, perché prima non riuscivo proprio a suonarla, ed ho iniziato ad ascoltare punk rock, rock, nu metal e contemporaneamente l’hip hop. Ho sempre avuto queste due sfaccettature nella vita, ossia di riuscire ad apprezzare due ambiti della musica che forse tra di loro un po’ si odiano anche, ma che invece secondo me hanno entrambi della roba buonissima da prendere, cosa che io ho cercato di fare mettendola tutta dentro questo disco.
Nell’album infatti convivono molti generi diversi. Quali sono i tuoi artisti di riferimento?
Ascoltando molti generi, sono tanti, impossibile elencarli tutti, ma sicuramente l’artista che più di tutti mi ha cresciuto e che per me è un mito è Matthew Bellamy dei Muse. È ascoltando lui che è nata la mia voglia di suonare piano, chitarra e cantare, lui ha anche dimostrato che su un palco si può fare tutto ciò. Per quanto riguarda l’hip hop ci sono un sacco di artisti della scena che mi hanno influenzato, partendo da Caos e Neffa quando uscirono, a Fabri Fibra e Marracash.
Il disco si intitola “Musicismo” e il primo singolo “Il Mostro” («che mi scrive le canzoni / poi mi obbliga a suonarle anche quando ho male alle mani»): un esorcismo in musica?
In realtà questo disco è proprio una cosa tanto naturale, che è nata naturalmente. Non mi sono fissato nessun obiettivo. Sono tutte canzoni una diversa dall’altra appunto perché non ho mai detto faccio questo, faccio quello: mi siedo al pianoforte e quello che viene viene. Questo mostro, che sono ovviamente io, mi ha ispirato.
Quando hai iniziato a scrivere canzoni?
Ho iniziato a suonare in una band a 14 anni, facevamo cover dei Nirvana, dei Blink 182, di Marilyn Manson e così via, come fanno tutti, ma già dopo due o tre anni ho sentito il bisogno di scrivere e ho iniziato a farlo in inglese, appunto perché facevo rock e i miei punti di riferimento erano artisti americani e inglesi. Quindi sono andato a Londra, anche per affinare l’inglese, che mi interessava per la scrittura dei miei pezzi. Ho iniziato presto, poi c’è stata una maturazione veloce negli ultimi tre o quattro anni rispetto allo scrivere in italiano, perché mi sono messo lì con la testa a spremermi e cercare di capire come volevo che fosse il mio modo di scrivere in italiano.
Ci sono delle canzoni nell’album che avevi già scritto in inglese e che hai tradotto in italiano?
“Soffrire con Stile” è l’unico pezzo che avevo fatto in inglese in un album precedente e che poi ho rivisitato e rielaborato fino a farlo diventare quello che è adesso.
L’album è stato prodotto da Shablo, che aveva già curato la realizzazione del tuo EP “Wow”: com’è nata la collaborazione con lui?
Un giorno il mio amico Rischio, un rapper di Bologna, mi chiamò per andare in studio a suonare la chitarra per lui che stava registrando un pezzo su una base di Shablo. Così lo conobbi e gli mandai del materiale che avevo realizzato in inglese, che gli piacque moltissimo. Al tempo però facevo anche rap in italiano, quindi ero impegnato in due progetti diversissimi e fu sua l’intuizione di fare un disco solo invece dei due ai quali stavo lavorando. Appena ci siamo messi a lavorare su questo concetto, abbiamo visto che quel che stava uscendo era veramente figo, parlo di due/tre pezzi dell’EP. Il resto è venuto da sé e abbiamo fatto il disco.
Quindi è stato Shablo a far nascere in te la scintilla che ha dato vita a questo lavoro?
Si, alla grande. Mi ha anche incanalato a capire cosa fare. Se non mi avesse mai trovato, sarei rimasto lì con due piedi in una scarpa, senza saper decidere bene cosa fare.
Parlando dell’album hai dichiarato: «è una grande soddisfazione, ma anche una grande responsabilità». In un panorama musicale come quello italiano attuale qual è la responsabilità di un artista, guardando in particolare alla scena hip hop?
Io faccio sempre questo esempio: guarda quanti commenti ha su YouTube un video di Laura Pausini e quanti ne ha uno di Fabri Fibra. Il pubblico hip hop è un pubblico attento al minimo passo falso, alla cosa che dici e poi rinneghi in un altro pezzo o facendo una mossa nella vita. Non è un ascolto della musica per la musica, quando esce un disco in generale vanno a sentirlo per vedere cosa ha detto quello, come l’ha detto e se c’è qualcosa da rinfacciargli. Questo è il problema dell’hip hop. Per me che faccio pop e uso il rap il problema è fare convivere questi due mondi. Il rischio delle mie canzoni è che vadano giù per metà a chi ascolta: il pubblico pop può essere infastidito quando faccio rap e viceversa, il pubblico del rap, a cui piace il rap crudo e gli piace la mia strofa, appena canto nel ritornello storce il naso davanti alla voce melodica.
Uno dei temi ricorrenti dell’album è quello del successo visto in accezione negativa: cos’è che ti spaventa del successo?
Quello che mi spaventa di più, pensando ad un grande successo, è quando finisce. Un artista per tutta la vita brama di essere ascoltato, al di là dei soldi e di tutto il resto. Essere ascoltato e seguito è la cosa che fa più piacere in assoluto, la massima aspirazione e quando questo finisce… Abbiamo visto molti artisti stare male e rovinarsi alla fine della carriera, forse è questa la cosa che mi spaventa di più.
Per finire, hai molti ammiratori tra i tuoi colleghi, da Fabri Fibra, a Ensi, Fritz Da Cat: c’è un artista italiano in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?
C’è sicuramente qualcuno, ma preferisco non fare nomi, anche perché in futuro avrete modo di vedere le collaborazioni che ci sono in cantiere. Qualcosa c’è, vi faccio questo spoiler, ma non vi dico cosa.