Di lui e della sua musica si potrebbe parlare per giorni, ma una cosa è certa: Paul Weller è un artista che non ama ripetersi. Anzi, a chi gli chiede il perché della distanza in termini di sound del suo ultimo album, “Saturns Pattern”, uscito il 19 maggio e presentato alla stampa ieri a Milano, dal precedente “Sonik Kicks”, risponde laconico: «Non volevo fare lo stesso album due volte. Ogni volta che entro in studio voglio fare qualcosa di diverso e mantenere vivo l’interesse».
Scritto e registrato come di consueto nei suoi Black Barn Studios, “Saturns Pattern”, dodicesimo capitolo di una carriera solista ormai ventennale e primo della nuova avventura con l’etichetta Parlophone, raccoglie 9 tracce prodotte da Weller a quattro mani col solito Jan “Stan” Kybert. Perle nate sotto l’egida dell’approccio libero ed innovativo, che da sempre distingue la sua creatività e come nella migliore tradizione difficilmente incasellabili sotto etichettature di genere. «Di solito non ho alcun tipo di preconcetto sulla musica che sto per fare, ascolto moltissimi generi differenti e sono arrivato ad una fase in cui non riesco ad etichettare la musica, ma piuttosto vedo tutto come un’unica cosa. In fondo, cerco solo di fare della buona musica».
E diamine se ci riesce, The Changingman, che per la realizzazione di quest’album si è avvalso della collaborazione dei fidati Steve Cradock (chitarra), Andy Crofts (chitarra), Ben Gordelier (batteria) e Steve Pilgrim (batteria), nonché di quella del vecchio amico e chitarrista della line-up originale dei The Jam, Steve Brookes. Una formazione collaudata, quindi, ma rinfrescata dal contributo di alcuni membri dei Syd Arthur, una delle band contemporanee preferite di Paul e del giovane talentuoso chitarrista dei The Strypes, Josh McClorey: «un chitarrista fenomenale», racconta Weller. «Ogni volta che lo sento suonare rimango meravigliato dalle sue potenzialità».
Prodotto dell’onnivoro appetito musicale dell’autore, “Saturns Pattern” offre uno sguardo a 360 gradi su un panorama stratificato, quei «50 anni e più di cultura pop e rock su cui riflettere», digeriti e risputati qui in un caleidoscopio di suggestioni sonore riunite sotto l’inconfondibile marchio di fabbrica del Modfather. Dall’esplosione blues di “White Sky” e “In The Car…” al funkettone pesante della title track, attraverso la romantica ballad che sfocia in un sincopato northern soul di “Going My Way” (pezzo scritto da Paul pensando alla sua «bella moglie») e il richiamo al punk newyorkese di Velvets e Stooges di “Long Time”, fino al soul-funk di “Pick It Up” e alle raffinate suggestioni deep house, disco e jazzy di “Phoenix”, tutto è esattamente dove dovrebbe essere.
Persino nella fumosa e malinconica psichedelia degli otto minuti e mezzo di “These City Streets”, canzone scritta pensando a Londra, «la più bella città del mondo, e a tutti gli innamorati che hanno calpestato le stesse strade nel corso del tempo». Insomma, il momento di tenerezza a chiusura di un lavoro potente ed eclettico, ma imperniato sulla consapevolezza di essere esattamente dove si dovrebbe essere, espressa da Paul in “I’m Where I Should Be”, a proposito della quale racconta: «Ci ho messo tantissimo tempo nella mia vita a sentirmi a mio agio nella mia pelle e ad avere un senso preciso di chi fossi. Mi ci sono voluti 50 anni e non so se questo dipenda dall’età o dall’incontrare la persona giusta e innamorarsi di lei, ma qui sono io che dico che sono contento del mio posto nel mondo. E in senso più ampio, nell’universo».
Inevitabile poi, davanti ad una leggenda vivente come Paul Weller, che con la sua musica ha praticamente attraversato quattro decadi, cedere alla tentazione di allungare lo sguardo su un passato le cui origini verranno celebrate alla Somerset House di Londra tra il 26 giugno e il 31 agosto nella mostra “The Jam: About the Young Idea”: «Una cosa sicuramente molto bella, di cui sono molto orgoglioso», ha raccontato Weller,«ma ho lasciato fare a loro, gli ho dato degli scatoloni e ho lasciato che ci spulciassero dentro. Al momento ho moltissimi impegni, quindi ho cercato di tenermene lontano, di restarne distaccato».
Così come in “Saturns Pattern”, si è tenuto lontano dalle tematiche politiche che quell’epoca avevano caratterizzato, tornando poi qua e là nella sua produzione: «Allora scrivevo canzoni politicamente impegnate perché mi venivano in maniera naturale», ha spiegato The Modfather. «Oggi potrei farlo solo se mi venissero in modo spontaneo. In realtà c’è anche da dire che quello che potrei dire oggi non è molto diverso da quello che scrivevo nei miei testi trent’anni fa. Per quello che vedo posso dire che il popolo inglese è migliorato, è andato oltre, mentre il sistema è peggiorato, i politici sono cambiati in peggio. C’è molta più integrazione e molta più interculturalità nella popolazione, ma il senso di unità e solidarietà della working class è stato smantellato negli anni ’80 dalla Thatcher e i suoi “figli” sono ancora lì che comandano. Oggi, poi, è sempre più difficile scrivere quel tipo di canzoni, perché guardando alla classe politica ti rendi conto che non c’è distinzione, sono tutti figli di buona famiglia, con una buona educazione alle spalle, sono tutti uguali, sia che rappresentino la sinistra, che la destra. È un mondo corporativo».
Come sempre, dunque, anche in questo suo ultimo lavoro, Paul Weller riesce nell’intento di riflettere i propri tempi: «È ciò che dovrebbe fare l’arte di qualità: riflettere i tempi ed offrire delle conferme e delle rassicurazioni alle persone sui loro sentimenti, le loro percezioni e sensazioni, no?». Tempi di disgregazione, in cui il rock ha in parte smarrito la propria capacità di raccontare un’identità culturale condivisa e i generi hanno sempre meno ragion d’essere. Tempi maturi per l’unificante eclettismo di “Saturns Pattern”.
Paul Weller sarà in tour in Italia quest’estate, dove suonerà per tre concerti il 5, 8 e 9 luglio rispettivamente a Gardone Riviera (BS), Brugnera (PN) e Roma.