Pierpaolo Capovilla (Teatro Degli Orrori)

 

19 aprile 2008

 

 

Un disco acclamato da tutti, che ha portato ad una fortunata attività live che dura da più di un anno: il Teatro degli Orrori, con il loro “Dell’impero delle tenebre”, si sono dimostrati quel qualcosa che mancava da anni nella scena rock italiana. Incontriamo il frontman della band, Pierpaolo Capovilla, prima della loro data allo Zion Rock Club di Conegliano Veneto (Treviso), in una lunga chiacchierata che si spinge anche in ambiti come l’attualità e la politica.

Perché fare uscire un disco con un nuovo nome, quando ci sono tre quarti dei componenti che militano / hanno militato negli One Dimensional Man?
Prima di tutto perché non è lo stesso progetto, pur giocando in famiglia, visto che ci conosciamo e suoniamo insieme da anni: nel Teatro degli Orrori cantiamo in italiano, siamo in quattro e non un trio, è nato ed è rimasto come un gruppo a sé stante. Infatti i ODM esistono tuttora, anche se non sappiamo ancora quando faremo qualcosa di nuovo.

“Rincorrere i sogni ci ha sempre portato fortuna”.. vi aspettavate questo successo per un disco al quale avete dedicato due anni?
Questa non è fortuna, questo è il minimo che doveva succedere (ride, ndr): ci aspettavamo di far bene, di fare un bel tour, di vendere quelle poche copie del disco, visto che la gente scarica tutto da internet e per fare i soldi devi fare tanti concerti. Anche il successo di critica era previsto. Tutto questo è il normale corso delle cose, perché lavori proprio in ottica di far bene. Certo, ci aspettavamo qualcosa di più (ride, ndr), ma siamo comunque contenti che ai nostri live ci sia gente che ascolta i più svariati generi musicali, i giovani e i meno giovani: tutto questo vuol dire che il disco è stato apprezzato da molti, che hanno capito lo sforzo a livello di arrangiamenti, performance e poetica che è stato fatto, e tutto questo ci fa piacere. Come live saremo impegnati fino a settembre, punteremo a fare una quarantina di date, al punto che non avremo neanche il tempo di pensare al disco nuovo (ride, ndr). Fare tante date è faticoso, ma è anche bello e soddisfacente: d’altronde, noi non siamo degli arrampicatori sociali, ma della gente che fa questa musica per vocazione.

Cosa ne pensi della scena italiana? Leggendo altre interviste, la tua opinione non è del tutto lusinghiera…
Il mainstream fa schifo: c’è una superficialità di fondo che dà la nausea, e preferirei evitare l’argomento. Però alcune cose belle ci sono sempre, perché trovi la Laura Pausini ma anche Paolo Conte. Nell’indipendente ci sono un sacco di cose interessanti: moltissimi lo fanno per vocazione perché hanno voglia di fare musica. Tutto questo è anche sintomo di una vitalità della società civile del paese, dimostrando che non ci sono solo i cretini lobotomizzati dai network televisivi, da MTV e cose simili, ma anche quelli che vogliono della musica di qualità, discutere di politica e che vogliono un paese più bello di quello che non è. Guarda le ultime elezioni, questa è l’Italia che si è venuta a definire dagli anni Ottanta in poi: siamo il paese europeo più brutto dal punto di vista della politica e dei diritti sociali, che nessuno vuole ampliare. Se anche gli stessi operai vanno a destra, tutti gli italiani vanno a destra. Non noi però, e neanche quelli che ascoltano il rock in Italia, perché ascoltano della musica che è sempre stata un sintomo di progresso. Con il rock vogliamo divertirci, ma anche far riflettere e cambiare la realtà, facendo anche politica. Voglio citare Gramsci: “Il tuo nemico non va eliminato fisicamente, ma convinto delle tue buone ragioni”. Per cambiare un paese, si deve partire dalla cultura e da un intrattenimento intelligente: basta impasticcarsi in discoteca, morire in auto come delle mosche, venite ai concerti dal vivo. Questo edonismo deve finire, ma, se dovesse andare avanti così, non finirà mai.

E la scelta di usare l’italiano per i vostri testi, in controtendenza rispetto a quelli che scrivono in inglese per poter sbancare all’estero?
Non si sbanca da nessuna parte, questo è poco ma sicuro! Mi dispiace sentire certi gruppi italiani, anche di un certo livello, che cantano in inglese e hanno dei testi ineleganti e, a volte, infantili, con magari degli arrangiamenti di qualità. Io sono sempre stato dell’opinione che sono più importanti le cose che dici della lingua con la quale le canti, e se scegli di usare l’inglese devi usarlo bene. Io stesso, per gli One Dimensional Man, ho scritto dei brani che ora non mi piacciono più, ma non troverai sicuramente delle idee stupide in quei testi. Poi è chiaro: se suoni e fai molti concerti in Italia, se canti in italiano il pubblico capisce i tuoi testi parola per parola, e il rapporto cambia decisamente in meglio, e tutto questo è bellissimo! Mi sentirei di consigliare agli anglofili di lasciare perdere l’inglese e di riemanciparsi con la propria lingua!

Ora, prendendo spunto da alcune frasi del vostro album, alcune brevi domande.. “Non si era mai sentito niente del genere”, la frase che apre il disco: a posteriori, come interpretate questa frase? Nel vostro piccolo, credete di avere cambiato qualcosa?
È una provocazione: questa frase non era neanche prevista nel testo. Si voleva anche esternare l’ambizione di proporre un disco diverso da quello che ci vogliono far ascoltare MTV e quelle cose lì: basta con il rock and roll adolescenziale e prendiamo a calci in culo chi lo fa, siamo stufi di tutta questa superficialità, pretendiamo di cercare e di fare sempre qualcosa di più, visto che ormai io stesso ho quarant’anni compiuti.

“E’ per questo che odio Milano”.. la odierete ancora di più dopo l’assegnazione dell’Expo 2015?
Beh, non siamo gli unici, recentemente, ad “odiare Milano”: gli stessi Elio e le Storie Tese, con “Parco Sempione”, si sono dimostrati molto più caustici rispetto al recentissimo passato, perché hanno voglia di dire delle cose e di incidere nell’opinione delle persone, denunciando una malefatta e tutta la mentalità che ci sta dietro. Una città come Milano ha bisogno di spazi verdi: prova a pensare a Londra senza il Green Park, sarebbe una città terribile. Una città non deve essere fatta solamente pensando al suo lato produttivo, per prendere l’automobile e andare a lavorare: ci sono anche i pensionati, gli anziani, i bambini che devono giocare all’aperto, al sicuro e senza tutto quel particolato. Non vorrei fare il boyscout, ma una città deve prendersi cura dei propri cittadini: le metropoli che pensano solo da un punto di vista affaristico (infatti, a Parco Sempione ci faranno il palazzo di una banca), sono odiose. Poi Milano la odio di mio perché è grigia, nebbiosa, tutti vanno avanti e indietro, i milanesi credono di sapere tutto loro, credendo di essere al centro del mondo quando in realtà sono nel suo buco del culo. Io vivo a Venezia e si vive infinitamente meglio che a Milano: io e i miei amici abbiamo un ritmo di vita completamente diverso, ci godiamo la vita un po’ di più. Non ce l’ho con i milanesi, tra di loro ci sono ottime persone, ma non sopporto la “Milano da bere” che vuole essere portata come esempio dell’Italia migliore, quando in realtà è il simbolo solo di sé stessa. Che sia la città più produttiva non me ne fotte niente, potrà essere la capitale finanziaria del paese, ma di sicuro non è quella morale, visto che da quella città vengono tutti i Berlusconi e i personaggi che rappresentano il ventre molle del peggio che c’è nel paese: la corruzione, l’affarismo e quelle cose là. Nel testo della canzone ho scelto Milano proprio perché si adatta alla perfezione alla parola “Ti odio”, è più un’espediente narrativo che un giudizio sulla città stessa.

“Me ne frego di Dio, me ne frego del demonio”…
Questo non sono io, ma Baudelaire, perché “E lei venne” è il “Vino della passione” del poeta. Non ho preso tutta la poesia, ma l’ho modificata facendo precipitare il testo nella contemporaneità italiana. Sono uno di quelli che crede che la poesia dei grandi poeti debba essere presa, rielaborata e fatta propria, facendola rivivere e resuscitare, non facendo un furto ma un atto d’amore. La nostra opera è di tipo letterario, visto che ho voluto inserire nelle canzoni certi autori, che sono stati la mia ispirazione, facendoli rivivere (visto ormai che sono tutti morti).

Come raffigureresti il “Carrarmatorock” della canzone omonima, quello che dovrebbe “radere al suolo i castelli di carta del re”?
Con la musica. Quando vuoi fare cultura, devi interferire con la realtà. Prendi tra gli anni Settanta e Ottanta, c’era un movimento enorme di cantautorato che parlava dei problemi del paese e della vita delle persone. Ma la gente lo vuole capire che Tiziano Ferro o la Pausini non fanno queste cose? I problemi d’amore sono delle stupidaggini e un modo finto e falso di narrare la vita delle persone. Quando poi ti accorgi che milioni di persone si appiattiscono e si standardizzano nel linguaggio. La responsabilità di chi fa musica è di entrare nell’immaginario collettivo, aumentando la conoscenza e la consapevolezza delle persone. Allora, la Laura Pausini mi impoverisce, il Teatro degli Orrori, gli Afterhours, i Marlene Kuntz mi arricchiscono. Ma tutto questo, confrontato con un certo cantautorato di classe come un certo Dalla, De Gregori, Bennato, non mi soddisfa.

N.L.

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