Intervista a Shilpa Ray: “Non avevo più nulla da perdere, così ho iniziato a sentirmi libera”

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Con i suoi lavori solisti, l’EP “It’s All Self Fellatio” (2013) e l’album “Last Year’s Savage” (2015), Shilpa Ray, già leader di Beat The Devil e Shilpa Ray and Her Happy Hookers, ha conquistato una buona fetta di addetti ai lavori, tra cui il buon vecchio Nick Cave, che con i suoi Bad Seeds se l’è portata come opening act nel tour seguito alla pubblicazione di “Push the Sky Away”. Oggi, a poco più di cinque mesi dall’ultimo passaggio dalla Penisola, la cantautrice di origini indiane ma di base a Brooklyn, è tornata ad ammaliare il pubblico italiano con le sonorità ipnotiche ed avvolgenti del suo armonium. Asti ha già avuto un assaggio della micidiale combo di attitudine selvaggia e disinibita vulnerabilità che Shilpa Ray, accompagnata dalla sua band, è in grado di portare sul palco e questa sera sarà la volta del Serraglio di Milano, seconda data del mini tour italiano che toccherà anche Firenze, Bari e Roma. In attesa di farci spazzare via dalla miscela di punk, rock, blues e soul caratteristica della sua musica, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con l’artista.

L’armonium indiano è un po’ un simbolo della tua identità artistica e personale. Quando hai iniziato a esplorarne le potenzialità in ambito rock?
Da bambina studiavo la musica classica indiana e all’epoca l’armonium non era il mio strumento preferito, ma ho imparato ad amarlo e ora è una parte di me. La prima volta che l’ho utilizzato nella mia musica è stato attorno ai vent’anni e la ragione per cui l’ho fatto è perché era l’unico strumento trasportabile che avessi al momento. Volevo fare musica, non sapevo suonare la chitarra e l’armonium era l’unico strumento che avevo, così ho iniziato a suonarci le mie cose.

Una specie di esperimento dettato dalla necessità. Quindi ha influenzato molto il modo in cui scrivi?
Sì, davvero, perché nella maggior parte dei casi lo si usa per suonare i raga indiani, ma io volevo suonare rock’n’roll! Lo strumento ha un sustain enorme e devo ammettere che se scrivessi un pezzo al piano suonerebbe molto diverso che se l’avessi composto utilizzando l’armonium. Dipende proprio dalla natura dello strumento, che influenza anche il modo in cui canto. Quindi sì, le canzoni che scrivo con l’armonium sono differenti rispetto a quelle che compongo al piano.

Quali sono i gruppi e gli artisti che ti hanno influenzata di più da ragazzina?
Mi piace un sacco di musica, ma alla fine credo che i Velvet Underground siano stati fondamentali per me. Ero alle medie quando li ho scoperti ed è stata una vera epifania, mi hanno cambiato la vita. Ero sempre stata ossessionata dalla musica, ma non avevo mai pensato di diventare una musicista. Per qualche ragione i Velvet hanno questo impatto sulla gente, li ascolti e ti viene voglia di suonare, è come una droga. E poi c’è quell’aspetto della loro storia legato alla sperimentazione e alla natura giovanile della band, che ti invoglia a fare musica a tua volta ed è una cosa folle, perché se ci pensi, quale band ha mai avuto un’influenza così forte?

A proposito di influenze, si può dire che Nick Cave sia una sorta di mentore per te. Com’è nato il vostro sodalizio?
L’ho incontrato nel negozio di jeans dove lavoravo a Soho, New York. Credo che un’amica comune gli avesse dato una copia del mio primo album, che in qualche modo deve averlo colpito, perché un giorno si è presentato al negozio e così ci siamo conosciuti. Qualche tempo dopo andai ad un concerto dei Grinderman e facemmo una bella chiacchierata. La svolta, però, è arrivata quando alla band che doveva aprire i loro concerti si ruppe il theremin, gira voce che sia stata io a distruggerlo, quindi Nick mi chiamò e mi chiese se potevo aprire per loro a Washington DC e qualche altra data nel Sud. Ovviamente la mia risposta fu SÌ!

Cos’hai imparato di nuovo dello stare sul palco dall’esperienza in tour con Nick Cave and The Bad Seeds?
Beh, suonare da soli su un palco del genere è davvero dura, devi avere la confidenza necessaria per farlo, ma credo che mi abbia fortificata molto come musicista, che abbia funzionato o meno. Il punto è riuscire a riempire lo spazio e creare la giusta magia e probabilmente qualche serata è andata meglio di altre.

Le tue performance hanno un carattere al contempo etereo e molto materico, al pari della tua musica, che sa essere evocativa, ma anche estremamente diretta, quasi oltraggiosa. Da dove provengono queste qualità opposte e come riesci a farle convivere?
Credo che faccia parte della mia natura, sono una persona che sa essere apertamente arrabbiata, apertamente felice o triste all’estremo. Ho sempre avuto un modo molto forte di esprimere le mie emozioni e se chiedi in giro sicuramente qualcuno ti dirà che sono pazza, anche se questa mia attitudine si è un po’ smussata con l’andar del tempo. C’è ancora, eh, però adesso è più presente nella mia musica che nella mia vita quotidiana. Quindi penso che la dualità o “più che dualità” di cui parli venga da lì.

In “Last Year’s Savage” si percepisce un discreto tasso di rabbia. In che periodo della tua vita sono nati i pezzi dell’album?
Gran parte del disco è nato durante il tour con i Bad Seeds, per cui ho scritto anche l’EP (“It’s All Self Fellatio”, ndr), quindi il periodo è stato quello a grandi linee, anche se qualche brano è arrivato prima, altri dopo. Stavo attraversando un momento particolare, avevo appena sciolto la mia ultima band (The Happy Hookers, ndr) e, invece di essere considerata semplicemente una fase della mia carriera, la cosa è stata vista da tutti come un rischio che mi ero presa e che nessuno voleva correre, quindi ho perso l’etichetta, il mio agente, tutti. La ragione per cui mi hanno mollata è che ritenevano che tutta la creatività venisse dalla band, una faccenda con cui di tanto in tanto mi capita di dovermi confrontare tuttora.

Ma se eri tu a scrivere i pezzi!
Vedi, anche se scrivo la mia musica, i testi e questa è la mia roba, per qualcuno è molto più comodo pensarla così, cioè che non sia la donna sul palco al centro della creatività. Ricordo di avere visto una clip in cui un membro dei Blur, non ricordo quale, diceva che PJ Harvey scrive delle sue mestruazioni, o qualcosa del genere. Ma dico, hai visto PJ sul palco? È una musicista incredibile! È davvero difficile introdurre gli uomini alla musica fatta dalle donne, sembra sempre che ci debba essere una donna a mediare.

In questo senso il riferimento al menarca ha un significato forte, indubbiamente per molti uomini è difficile addentrarsi nei meandri dell’universo femminile espressi dall’arte.
Concordo. E va anche sfatato il mito che sia figo pensare che nella musica che tu sia una donna o un uomo non cambi nulla, al contrario, è molto diverso. Quando entro in un posto la gente pensa che io sia la ragazza del merchandising e che la mia band siano i musicisti. A volte mi diverto a giocarci un po’ lasciando che la gente creda che le cose stiano veramente così.

La tua produzione solista, rispetto a quella realizzata con i Beat the Devil e gli Happy Hookers, gode di una essenzialità negli arrangiamenti, che dona ai brani un carattere molto più incisivo. Cosa ti ha spinta a muoverti in questa direzione?
Molto è dipeso dall’aver tagliato fuori tutti e aver iniziato a fare quello che volevo veramente fare, senza alcun condizionamento esterno. In definitiva, cosa avevo da perdere? Il mio ultimo disco è autofinanziato e se da un lato è molto più dura prendersi carico di tutti gli aspetti del proprio lavoro, dall’altro non c’è nessuno che ti dice cosa fare, nessuno che ti pressa per rientrare col budget e puoi davvero sentirti libero di andare nella direzione che vuoi. Io volevo capire come sarebbero stati i miei pezzi ridotti all’osso, una questione che ci riporta ai Velvet Underground e al loro minimalismo musicale, che è ciò che mi interessa di più. A differenza di “Teenage and Torture”, in “Last Year’s Savage” volevo concentrarmi sugli elementi fondamentali della canzone e ottenere quell’essenzialità, che è fottutamente ruvida e che ti dà il fuoco e la potenza.

I tuoi testi sono estremamente diretti, ironici, disillusi e dalle immagini forti. Cosa ti ispira nella scrittura delle liriche?
Trascorro molto tempo da sola quando scrivo e molto di quello che finisce nelle canzoni viene fuori da situazioni autoironiche o divertenti. Di solito scrivo qualche storia o annoto qualche sensazione e poi estraggo le frasi più divertenti per me.

Ok, ma le tue canzoni parlano spesso di morte, inferno, Dio…
Ho uno strano senso dell’umorismo, che ci posso fare?! (ride)

Nel disco c’è un brano in particolare il cui testo mi ha colpito molto ed è “Moksha”, che rapporto hai con la religione?
Sono stata cresciuta secondo i dettami della religione Hindu, che sono ancora con me. Durante un viaggio in Nepal sono andata al tempio di Pashupatinath, una specie di Mecca per gli induisti, la guida mi ha mostrato il luogo dove avvengono le cremazioni e ce n’era uno per la gente povera, uno per la classe media e uno per i ricchi. Ho trovato tutto ciò disgustoso, in un Paese dove c’è tanta povertà è inammissibile chiedere alla gente di spendere i propri risparmi per avvicinarsi a Dio dopo la morte, sono stronzate! Tutte le organizzazioni religiose chiedono soldi in cambio di false promesse di salvezza.

Hai già nuovo materiale o idee per il prossimo album?
In questo momento sto lavorando al nuovo album, probabilmente sono quasi a metà e forse una volta tornata a casa lo finirò, ma chissà, vedremo cosa succederà. Posso dirti che sto scrivendo delle mie esperienze, ho lavorato come security a New York, me ne stavo lì seduta in un angolo di questo bar chiassoso ad osservare per ore la gente sbronza e fuori di testa e ti assicuro che si vedono cose davvero folli.

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