In occasione della pubblicazione del suo quarto album in studio, abbiamo avuto la possibilità di fare una lunga chiacchierata con Susanna Parigi, musicista fra le poche che abbiano veramente qualcosa da dire nel modesto panorama della musica leggera italiana. Non c’è molto altro d’aggiungere in questo preambolo, si presenta benissimo lei nell’intervista che segue.
11 novembre 2009
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto a dedicare un disco al tema della ‘parola’?
Allora: prima ho scritto quasi tutte le canzoni. Poi, quando eravamo già oltre metà del lavoro, io e il mio coautore, Kaballà, ci siamo accorti che tutte avevano un filo conduttore, che, appunto, era la ‘parola’. Però questa è stata una cosa involontaria, non è stata certo premeditata; anche perché io mi sento poco libera e non riesco a lavorare se ho già in partenza l’idea di quello che dovrebbe essere il percorso di un album. Insomma, alla fine ho scoperto come tutte le canzoni facevano riferimento a questo tema, tanto che qualcuno poi ha parlato di ‘concept album’, ma in realtà non c’è stato nulla di stabilito a tavolino. Quello che è sicuro è che, se è andata così, vuol dire che la sensazione di essere offesi in continuazione era molto forte. Offesi, per esempio, dai mezzi di comunicazione, che, è inutile girarci intorno, influenzano tantissimo le persone. Siamo tutti delle spugne: anch’io, qualche volta, mi trovo addirittura a pronunciare una parola che non sopporto, tipo “assolutamente”…ma è tale il potere della ripetizione delle stesse parole che per evitarlo bisognerebbe avere il coraggio di spegnere tutto. Ma probabilmente neppure questo sarebbe sufficiente. Perché tu vai in pullman e ci sono le pubblicità, vai sulla spiaggia per non sentire niente e c’è la radio a manetta…insomma, le informazioni ti raggiungono comunque. Ma questo aspetto, ossia l’uso e l’abuso delle parole e l’impoverimento del vocabolario, è uno fra i tanti. Ma quello che più è pericoloso, ed è il motivo per cui ci sentiamo (non solo io, ma anche tutte le persone che hanno collaborato all’album) offesi, è questa: la manipolazione del vocabolario. In questo senso, la parola è offesa quando non è rispettata nella sua verità; la parola offende quando è menzogna, quando diventa insulto, quando diventa volgarità. Ma poi c’è un ulteriore aspetto, che a mio avviso è ancora più pericoloso: il cambiare nome alle cose, mantenendo le cose come stanno; oppure, il cambiare le cose, mantenendone però il nome. Ora, prima che tutti noi ci accorgiamo di questo ‘movimento’ nascosto, la fregatura è già avvenuta. Si crea confusione, destabilizzazione, e le persone non sanno difendersi da questo. Giusto per capirci: la parola “schiavitù” è come se non esistesse, nessuno dirà mai “ho dieci schiavi che lavorano per me”…però io ho collaborato per molto tempo con Medici Senza Frontiere, e la relazione che hanno fatto loro sugli invisibili in Italia che lavorano nel meridione parla chiaramente di condizione di schiavitù, date le condizioni in cui lavorano e in cui vivono. L’esempio inverso si può fare con il telegiornale: io sono stupefatta, perché il TG sta diventando rotocalco rosa o cronaca di regime. Quello che nel nostro immaginario è il TG, in realtà non lo è più. Se non fosse drammatico ci sarebbe da ridere: pochi giorni fa al TG1 delle 20:00 c’è stato un servizio di 5 minuti sui salvadanai. Pochi giorni prima, sempre sullo stesso TG, c’è stato un servizio sugli amuleti. Questo è un insulto alle parole, come anche togliere i fatti alle notizie che stai dando.
Infatti, sempre rimanendo in tema d’attualità, volevo chiederti se per l’ultimo pezzo del disco, “L’Applauso (la parola che uccide)”, ti eri ispirata alla realtà contemporanea…
Sì, perché anche l’applauso è una ‘parola’. Non in senso verbale, però è un gesto d’approvazione. Io ti applaudo e ti dico “sei stato molto bravo”. Nella storia, lo sappiamo tutti, l’applauso ha avuto il potere di uccidere: l’applauso alle dittature, l’applauso al fenomeno da circo, l’applauso alla corrida…ecco perché dico che la parola ha un potere fortissimo, ma anche l’applauso ha un potere fortissimo, perché è una decisione.
Ho visto che il cd include anche un clip video, nel quale vi sono testimonianze di molte personalità provenienti da ambiti fra i più svariati: Corrado Augias, Leonardo Manera, Lella Costa, Andrea Pinketts…come sei venuta in contatto con loro?
Dunque, quello che c’è sul cd è un promo, mentre i contributi completi di trovano sul sito di Promomusic. È un progetto aperto, infatti successivamente si è aggiunto Marco Travaglio, anche se non compare sul cd. Te lo dico in tutta sincerità: era nata come una cosa fra amici, uno spazio in cui, chi la pensava in maniera simile, poteva lasciare un suo contributo video. Poi la cosa si è allargata, anche inaspettatamente. Alcune persone sono miei amici da tempo, come Manera, come Pinketts, come Kaballà, altre invece non le conoscevo proprio, ad esempio Lella Costa. A lei ho proposto il progetto ed ha accettato: per me è stato un piacere enorme, perché a volte ti senti un po’ solo. Certo la realtà non è sempre quella che si vede, ma la sensazione di essere pesce fuor d’acqua in certi momenti è forte. Così mi sono sentita rincuorata da questo interesse. Lella Costa è una persona meravigliosa, e il suo intervento è stato bellissimo quando ha detto che tutti dovrebbero adottare una parola. Corrado Augias ha fatto un bellissimo intervento sul pudore, Marco Travaglio ha parlato della manipolazione del vocabolario, Pino Arlacchi ha parlato del “grande inganno”, ossia la sensazione, che ci viene data dall’informazione, che la catastrofe sia incombente; non è così, statistiche alla mano non stiamo andando verso un imbarbarimento: certo che la linea del grafico non è retta, ha alti e bassi, ma in linea di massima questa catastrofe paventata non è vera. Certo che il grande inganno genera paura, e la paura blocca l’agire, e ti fa pensare “ma sì, tanto va tutto a scatafascio, che cosa ci possiamo fare?”…insomma, l’insulto delle parole si può allargare a tanti aspetti di questo sistema.
Definiscono la tua musica ‘pop letterario’. Io invece trovo il tuo disco più affine a una dimensione quasi da musica da camera…
Musica da camera mi piace tanto. Anch’io la ritengo musica da camera, direi che è una definizione perfetta. Sul ‘pop letterario’; è stata la definizione data da un giornalista, perché mi hanno sempre detto che sono poco collocabile, allora al giornalista è venuto in mente di dire questo, anche se, sinceramente, non credo di avere molto a che fare con il pop…
Lo credo anch’io. Infatti, una cosa che mi è piaciuta molto è stata quella di utilizzare il clavicembalo nel brano che dà il nome al disco. Ho trovato il suo timbro perfetto per l’atmosfera del brano. Ecco, volevo chiederti questo: i tuoi studi di musica classica quanto hanno influito sulla tua crescita musicale?
Tanto! Sono diplomata in pianoforte, ho sempre ascoltato tanta musica e di tutto. Prima di iniziare il conservatorio, quando ero molto molto piccola, cantavo moltissimo. I miei genitori amavano molto la musica francese, autori come Brel, e da loro ho assorbito tanta musica che non avrei assorbito data l’età; invece, essendo loro appassionati di questo tipo di musica, me l’hanno fatta ascoltare sin da piccolissima. Poi è arrivato il conservatorio, e quindi l’immersione nella musica classica; poi anche altro, come la musica d’autore. Però io ritengo, come dice Adorno, che c’è tanta buona musica leggera come c’è tanta cattiva musica classica.
Hai citato Adorno. Ho letto che conosci Umberto Galimberti e che ha collaborato con te. Come l’hai avvicinato?
Io e Umberto abbiamo collaborato per la stesura dei monologhi dello spettacolo del mio progetto precedente, “In Differenze”. Che dire…è una persona per la quale nutro, da sempre, una stima infinita. Come l’ho conosciuto? Semplicemente, gli ho mandato una lettera in redazione, credo fosse quella di “Repubblica”. Così come ho fatto con Lella Costa, le ho mandato un e – mail. Persino con Pat Metheny, che ha suonato nel mio primo album e in “In Differenze”, ho usato lo stesso metodo. Come posso dirti; anche per nascita io non ho mai frequentato certi ambienti, conoscono tutti la mia provenienza. Quindi vado così…anche perché spesso sono meno arroganti e più raggiungibili i grandi artisti rispetto ad altri. Anche Noa e Tony Levin sono stati molto disponibili. Penso anche a Battiato, che mi ha telefonato per farmi i complimenti dopo aver sentito il disco: io pensavo fosse uno scherzo, infatti ho risposto “Sì dai, per favore!” e invece era lui! Per dirti quanto, spesso, più sono grandi e meno sono arroganti.
Mi è piaciuta molto la citazione di Montale sulla tua “non biografia”. Qual è il tuo rapporto con la poesia?
L’ho fatto anche chiarendo che, onde evitare equivoci, io non sono poeta, quindi cito un vero poeta. Però amo tanto, tanto la poesia: cerco di imparare una poesia nuova ogni giorno (ride). Montale è sicuramente uno fra i miei poeti preferiti, uno fra i tanti. Adoro anche Alda Merini. È arduo stabilire quanto mi abbia influenzata nei testi delle canzoni che scrivo, comunque la poesia è una delle mie letture preferite.
Un’altra cosa che mi ha colpito, fra i vari ringraziamenti, è quello al Maestro Pasquale Panella: dici che ti ha insegnato a “scardinare il codice”. Cosa intendi con questo?
Spesso le parole, al di fuori di pochissimi contesti, tra i quali uno potrebbe essere l’atto d’amore, seguono schemi precisi. Il linguaggio ha un codice, e spesso le parole non parlano ma recitano, spesso non dicono ma servono. Ecco, in questi casi, forse, l’unica comunicazione possibile è quando si scardina il codice. È una cosa che ogni tanto fanno i poeti. E allora sono rari i momenti in cui si riesce a scardinare questo modo di esprimersi codificato. Panella è un grande in questo: ha fatto la presentazione del mio libretto…beh, basta così, c’è chi dice che “nel troppo parlare non si sfugge al peccato”.
Ne “L’Insulto delle parole” hai suonato anche con l’Arkè String Quartet: cosa mi dici di quest’altra collaborazione?
Musicalmente è stata una grandissima soddisfazione per me. Le partiture le ha scritte Valentino Corvino, degli Arkè appunto, e ci tengo a dire che hanno fatto un lavoro incredibile. Tutti sanno che loro sono anche dei virtuosi; invece in questo lavoro sono entrati nella mia musica nella maniera più profonda, e hanno lasciato da parte un certo tipo di tecnica, di cui sono indubbiamente capaci, per fare esattamente quello che io desideravo.
Così racconti il brano “Non chiedermi parole d’amore”: il ritirarsi delle parole dove la forza del desiderio vince. Non ti è mai venuto in mente di poter comporre un album strumentale?
Sì! E ti dirò che ce l’ho proprio in previsione, mi piacerebbe farlo. A questo punto, non dico l’eliminazione totale della parola, ma…insomma, la parola è sacra. C’è chi dice che l’universo nasce dal suono, e si parla dell’OM. La parola è utilizzata nei riti: persino gli egiziani pensavano che certi riti non sarebbero riusciti se, al di là delle parole, queste formule non fossero state emesse col giusto suono, con la giusta intonazione. Nel clip video del cd Bruno Renzi parla dei Veda e della medicina ayurvedica, e dice che in essi è sì importante la parola, ma è anche importante il suono della parola stessa. La parola ha, insomma, un potere immenso. In fondo noi comunichiamo con la parola. Esiste un altro linguaggio, cioè quello del corpo, però è molto difficile da utilizzare. E quindi a cosa ci affidiamo noi, se non alla parola, e alla possibilità di credere alle parole?
Ecco; ricollegandomi a questo discorso, quando parli del testo della canzone “L’insulto delle parole”, dici “so molto bene che dire non credo in niente, non me ne frega di niente fa molto cinico ed è molto figo. La protagonista di questa canzone invece dice a chiare lettere che crede ancora in qualcosa”. E collegavi questo al sentirsi offeso.
Sì, perché credere ancora in qualcosa, secondo me significa avere la consapevolezza che qualcosa è stato offeso. Se tu non hai questa consapevolezza, di essere stato offeso, come agisci? Ma questa è stata una cosa programmata, ormai da anni. Forse venti, forse anche di più. Cioè, il rimbambimento totale, tramite mezzi televisivi, tramite un certo tipo d’informazione, per cui le persone non solo non si rendono conto dell’offesa, di essere offesi giornalmente dalla menzogna, ma non si rendono conto neppure qual è il loro vero benessere. Come il paradosso della tecnologia: dovrebbe aiutarci ad avere più tempo per noi stessi, e invece ci manca il tempo. Io uso tantissimo la tecnologia, ma spesso questa ti complica la vita. Poi succede che tutte queste cose ti rubano il tempo, e il tempo serve per pensare. Per questo io dico che credo ancora in qualcosa: credo che qualcosa possa essere cambiato, perché insegno, vedo che quando il ragazzo è ancora puro, quando non è stato ancora contaminato, è meraviglioso il modo con cui si può lavorare con questi ragazzi che ancora non sono stati contaminati. Se tu riesci a veicolar loro la bellezza, che viene tolta da questo sistema, tu dai ai giovani la possibilità di riempire i vuoti. Se tu gli riempi i vuoti, probabilmente berranno di meno e si ammazzeranno di meno in macchina. Quindi, andiamo alla radice: non mettiamo divieti, riconsegnamogli la bellezza, e la capacità di riconoscere le emozioni immense che hanno, e che spesso non sanno neppure d’avere, non sanno dove metterle, non sanno come veicolarle. La creatività è un modo per veicolare le emozioni.
Un’ultima domanda per chiudere. Prima parlavi del tuo insegnamento al conservatorio: che cosa ne pensi dei vari talent show che in questi ultimi anni ci propina la televisione, come, ad esempio, X Factor?
Sai cosa penso? Primo: veicolano musica morta. Io sono contraria al litigio, sono contraria all’insulto, e i miei ragazzi sanno tutti che per entrare in certe trasmissioni non serve il talento, ma serve che tu sappia litigare, che tu sappia mettere in mostra una falsa intimità, perché poi non c’è niente di vero…pensa cosa proponiamo ai nostri ragazzi! Ma, al di là di questo, si fa passare per talento e per scoperta di talenti la scoperta, invece, di puri esecutori. Esecutori che posso anche essere bravissimi, ma si sta comunque veicolando, con X Factor, solo della musica morta. Attenzione, non voglio essere fraintesa: la bella musica è bella sempre, e una canzone bella degli anni Settanta, o prima ancora, rimarrà sempre una gran canzone. Ma la cosa tragica è non spiegare la differenza che passa tra Händel e Farinelli, non sviluppare la creatività dei giovani, e utilizzarli come puri ripetitori, come puri esecutori di una musica che non è del nostro tempo.
Stefano Masnaghetti