I Vetrozero sono una delle realtà italiane indipendenti più sorprendenti degli ultimi anni: a dieci anni dalla loro fondazione e dopo essere stati tra i finalisti dell’Heineken Jammin Contest dello scorso anno, hanno appena dato alle stampe “Temo Solo La Malattia”, album sorprendente per tematiche ed arrangiamenti. Acclamata dalla critica, la band ha aperto il recente concerto degli Skunk Anansie al Pistoia Blues e si appresta a promuovere degnamente un album che, stando alle parole del leader Glauco Gabrielli, ha prosciugato totalmente le energie del gruppo.
Innanzitutto, come mai tanto tempo per un full length album? In pratica siete attivi da più di dieci anni…
E’ stato effettivamente un parto questo disco. Dopo aver fatto svariati demo volevamo fare un disco di spessore e questo ha richiesto un impegno non indifferente. Ci siamo confrontati con i nostri limiti e partendo da un nucleo pressoché definito di brani, abbiamo cercato di dare ad ognuno la veste migliore. Fondamentale in tutto ciò è stato l’apporto di Fabio de Pretis, vero deus ex machina e quinto Vetrozero.
Quando iniziaste, eravamo all’apice della vendita dei dischi e i concerti servivano a promuovere gli album. Oggi, invece, i ruoli si sono invertiti e sono i dischi che promuovono i live…quanto è importante per voi questo aspetto?
La dimensione live è fondamentale come per tutti i gruppi: è la prova del nove dove si vede se una band vale e nel nostro caso ci permette di esprimere il nostro lato più rock che su disco risulta forse un po’ “addomesticato”.
Sia all’Heineken dell’anno scorso, che a Pistoia quest’anno avete aperto per gli Skunk Anansie…Ormai sarete amici! Quanto vi ha aiutato aprire per un gruppo così importante?
Il destino ha voluto che le nostre strade si incrociassero un anno dopo l’altro. Entrambe le volte è stata una bellissima esperienza ed occasione di grande visibilità. Abbiamo lasciato il nostro disco ad Ace e ci ha fatto sapere personalmente di averlo ascoltato in macchina e che gli è piaciuto. Stare su quei palchi è gratificante, anche solo per l’aria che si respira.
Vuoi spiegare il significato dietro al titolo del vostro album?
Dopo una relazione andata ai cani mi sono ritrovato nel classico periodo “vale tutto”, non so capisci cosa voglio dire. Una volta uscitone, guardandomi indietro mi sono reso conto di aver vissuto come se non temessi nulla all’ infuori della malattia, una paura che mi rimane tutt’ora. Mi piace però anche l’ambiguità che genera, l’idea che possa essere inteso come un invito ad approcciarsi alla vita a gamba tesa, senza remore o compromessi.
Fin dal titolo si intuisce che il filo conduttore del disco sia la sofferenza. Sei d’accordo?
Sono d’accordo, anche se questa viene coniugata in diversi modi. C’è dell’umorismo nero, c’è la rabbia e c’è della palese disillusione. E’ un disco molto emotivo, dove la fantasia e l’astrazione spesso prendono il sopravvento. E’ denso di immagini, c’è una tendenza più fotografica che narrativa, che mi rendo conto possa risultare a volte criptica. Il ruolo dell’ascoltatore, che interiorizza il pezzo con la propria sensibilità, è complementare al nostro sforzo ed è qualcosa di magico, perché un pezzo non dice mai tutto.
[youtube j_ed11DqOLA]Come nascono i tuoi testi? Il processo creativo nasce prima o dopo le melodie?
Dipende un po’ dai casi, non c’è mai un modus operandi identico per ogni brano. Ci sono testi che nascono così di getto, unitari ed a volte poi finiscono nel pezzo così come sono. Ci sono delle volte in cui un testo che nella mia testa è “destinato” ad un determinato brano non funziona, allora o si prova a limare oppure si cestina e si ricomincia, magari cercando di cambiare direzione, angolatura, prospettiva. Certi binomi testo/canzone che uno ritiene inscindibili sono però difficili da abbandonare. Ho dovuto dolorosamente imparare a non affezionarmi troppo alle cose, a lasciare andare.
Come è cambiato, se è cambiato, il tuo modo di scrivere canzoni? E il tuo approccio alla musica?
Tutto il tempo passato in studio penso che mi abbia dato una visione più ampia e concreta di molte cose. Tendo ad essere più pratico, cerco di non perdermi sui dettagli, ma di curare l’ossatura dei brani per poi rifinirli ed arrangiarli al meglio.
Cosa pensi di internet? E’ più importante il vantaggio di poter arrivare dovunque in un attimo o la disgrazia del download illegale?
E’ un problema vastissimo. La questione del download illegale è proprio una disgrazia. Quello che mi fa pensare è che proprio gli amanti della musica sono gli stessi che le hanno dato la morte per certi versi.
La mia sensazione è che l’aumento smodato della proposta abbia portato la gente ad avere giga e giga di musica ma senza ascoltarla davvero…
La poca musica che ho scaricato nella mia vita marcisce nel mio hard-disk. Se non tocco, se non leggo, se non vedo, non mi appassiono e non mi lascio fantasticare. Preferisco di gran lunga i miei consumatissimi cd e vinili.
Avete scritto molti più pezzi in questi anni di quelli pubblicati? Stai già scrivendo altro?
Il nostro secondo disco è già in cantiere e riponiamo grosse aspettative in esso. Vorremmo allargare la forbice, cioè variegare di più la nostra musica: essere più rock nei pezzi tirati e più leccati sui pezzi tranquilli, trovando un filo conduttore che bilanci questi due estremi.
Come vedi la situazione della musica italiana oggi? La scena è un po’ differente da quando vi siete formati…
Penso che ci sia una sovrabbondanza di band e persone che hanno smania di arrivare e che propongono musica di bassa qualità. Per fortuna invece ci sono ancora cose buone che si muovono e crescono, gente che si spacca la testa per fare buona musica. L’aspetto fondamentale per un gruppo è avere un perché: al giorno d’oggi troppe band non ne hanno uno valido.
Ci sono artisti che ti hanno influenzato più di altri o che continuano a farlo?
Il mio “Personal Jesus” è Sinead O’Connor, inizio e fine della mia galassia emotiva. Poi in ordine sparso ti direi Bruce Springsteen, Social Distortion, Stone Roses, Bush e la scena di Seattle.
Cosa riserva il futuro prossimo? Tour invernale?
Stiamo cercando di raccogliere più date possibili per promuovere il nostro disco, speriamo di averne una serie tale che possa essere degnamente chiamata Tour.
Luca Garrò