Un bacino antico quanto smisurato di racconti, canti e personaggi, che la storia ha seminterrato sotto il pelo della superficie di un paesaggio popolato da trivelle petrolifere, pale eoliche, case abbandonate, vecchie ferrovie, boschi e animali selvatici. È questa l’Alta Irpinia di Vinicio Capossela, terra “selvaggia, ancestrale e incurante, abituata a scrollarsi di dosso l’uomo e le sue opere effimere”, che dopo avere ispirato il libro, “Il paese dei Coppoloni”, è pronta per il grande schermo dove approderà il 19 e 20 gennaio 2016 col film documentario “Vinicio Capossela – Nel paese dei Coppoloni”.
“Chi siete? A chi appartenete? Cosa andate cercando?“. È inseguendo le risposte a questi interrogativi, che Vinicio Capossela si è inoltrato nel paese dei Coppoloni, in un viaggio cinematografico, musicale e fantastico, narrato, cantato e vissuto da lui in prima persona. Ne è risultato un lungometraggio, diretto da Stefano Obino, co-autore del soggetto assieme a Vinicio, che, come spiegato dal cantautore in conferenza stampa a Milano, “non è un film, né un documentario etno-antropologico sulla musica della terra, e nemmeno un film documentario sull’Irpinia, attuale o passata che sia. È un lavoro in forma di documentazione visiva sul tentativo di qualcuno, che non so se definire viandante, narratore, cercatore o cantore, che cerca di rimodulare un paesaggio reale in una chiave di racconto immaginifico e universalmente abitabile“. Un ritorno a casa, a quella Heimat, parola tedesca che Capossela, nato a Hannover, consce bene e che indica “non tanto la patria in sé, quella si chiama Vaterland, quanto un sentimento, quello del sentirsi a casa, ma una casa da cui si è separati, quindi perduta. Il concetto dunque da spaziale si sposta sul piano temporale, quindi una specie di paesaggio e mondo perduto dell’infanzia. La mia Heimat non riguarda solo la mia infanzia, ma piuttosto quella del mondo, quell’infanzia che alberga nel mito, nel racconto meraviglioso. Rispetto al tempo siamo tutti emigrati. L’emigrazione viene sempre collegata ai luoghi, ma l’emigrazione che avviene per tutti è quella che riguarda il tempo, nel senso che nessuno ha la possibilità pur stando sempre nello stesso posto per tutta la vita, di tornare al Posto, perché tutto cambia continuamente. L’unica possibilità di abitare un luogo,quindi, è quella del racconto e della lingua che si parla in un racconto“.
Elemento centrale della “viandanza” di Vinicio – anzi Guarramon, come vuole Tastaduccello, il cantore cieco che gli ha regalato questo “stortonome” ispirato al toponimo di un punto che unisce tre contrade e che si chiama Guarramone, come il torrente che vi scorre sotto – nella terra dei Coppoloni è la musica, l’ascolto delle voci e dei suoni che ne affiorano e da cui è nata, dopo una ricerca durata oltre 10 anni, la colonna sonora originale del film, che andrà a costituire il suo prossimo «disco-giacimento», “Canzoni della Cupa”, in uscita a marzo. “I canti percorrono sempre la terra, cambiano pelle e lingua, ma non il moto dell’anima che li ha generati. Di essi rimane la storia che vanno narrando, un matrimonio che va ben al di là di me e della terra che ho cercato di raccontare”, ha spiegato Vinicio. È il caso de “Il Pumminale”, il lupo mannaro della tradizione popolare calitrana, porco-maiale per il Guarramon, storia di demoni e seduzione narrata nel primo singolo estratto dal disco e splendidamente resa nel “film di 12 minuti basato su una canzone”, girato dal regista di culto della scena underground Lech Kowalski. Prestate orecchio, dunque, e disponetevi al sogno, il viaggio sta per cominciare.
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