“Black Cat”, s’intitola così il nuovo disco di Zucchero. Uscito venerdì a distanza di oltre 5 anni dall’ultimo “Chocabeck”, l’album, il dodicesimo in studio per il bluesman emiliano, verrà pubblicato anche in versione internazionale, con la bonus track “Turn the world down” scritta da Elvis Costello; spagnola, con “Hechos de suenos” ft. Alejandro Sanz; asiatica, col chitarrista hard rock giapponese Hotei in “Ti voglio sposare”. Una ventata nipponica che anticipa la vera novità per Sugar, ossia la sua prima scorribanda live in Giappone, dove lo porterà il tour mondiale in partenza dopo le dieci date previste all’Arena di Verona tra il 16 e il 28 settembre.
Anarchico come un felino e profondamente legato alla tradizione afroamericana, l’album, nato da anni di ricerca e riflessioni, segna un ritorno di Adelmo Fornaciari alla libertà degli esordi. “Quando mi sono messo a scrivere questo album , ho pensato di voler essere più libero. Quando fai questo mestiere ovviamente speri sempre che il tuo disco piaccia e possa essere un successo. Ma mi sono ricordato di “Oro Incenso & Birra”. A quei tempi non mi interessavano le classifiche delle radio o quanto l’album potesse piacere, ero più libero perché avevo meno da perdere, andavo a ruota libera, ero capace di alzarmi alle 4 di mattina con una frase in testa, andare in studio e, su quella frase, con una chitarra e un pianoforte, buttare giù quello che il momento mi suggeriva in modo istintivo. Con “Black Cat”, volevo tornare quanto più possibile a quello stato d’animo, cercando di fregarmene della musica che si sente i giro e muovendomi in modo più anarchico”, ha spiegato Zucchero giovedì in conferenza stampa nella sontuosa cornice di Palazzo Clerici a Milano.
“Contrariamente a quanto avviene dalle nostre parti”, ha continuato a proposito del titolo, “per gli afroamericani il gatto nero è sempre indice di buon auspicio e anche un modo di dire, si salutano con un “Hey cat, how are you?”, come a dire “Hey man”, è un saluto confidenziale. Dunque ho deciso di dare questo nome al disco perché, più degli altri, è un album nero, con radici nella musica afroamericana. Poi è un album libero, selvatico, i suoni sono ruvidi, marci, ma anche un un po’ anarchico, proprio come il gatto”.
Registrato tra Los Angeles, Nashville e New Orleans e prodotto con la collaborazione dei leggendari Don Was, T Bone Burnett – “l’incognita, a cui ho affidato dei brani che volevo risultassero snaturati rispetto a quello che poteva essere un arrangiamento ovvio” – e Brendan O’Brien, il disco trova la sua genesi nella ricerca di un suono immaginato girovagando tra gli Stati Uniti del Sud. “Ero in tour per la prima volta nel Sud e mentre in “Chocabeck” erano le campane della chiesa di fronte a casa mia, l’organo dove andavo a suonare, piuttosto che le voci dei ragazzini sul sagrato, qui il suono mi è venuto pensando alle piantagioni di cotone, agli schiavi, per cui le catene sono diventate un suono ritmico, le voci sono diventate centrali e le prison songs sono diventate importanti nella ricerca di questo suono anche un po’ tribale. E poi, l’uso di queste chitarre un po’ artigianali con le corde piuttosto grosse e il collo di bottiglia tagliato… Insomma, mi sono creato questo suono anche immaginandomi film come “Dodici anni schiavo”, “Il colore viola” e “Django”. Questo era il suono che volevo creare, dopodiché le canzoni sono arrivate pensando a quel suono lì”.
Un suono curato nei minimi particolari, dettagli che fanno la differenza in questa dodicesima fatica del Nostro, incisa sia in analogico che in digitale, scegliendo poi la soluzione più adatta per ogni singolo pezzo, “tendenzialmente più analogico nelle ballate e più digitale nei tempi veloci”, nonché suonata da musicisti di fama internazionale selezionati di volta in volta a seconda delle necessità del brano da registrare. “Tradizionalmente si mette assieme un team di musicisti con cui fare tutto l’album”, ha spiegato Sugar, “invece qui per ogni traccia o a gruppi di due o tre brani abbiamo scelto i musicisti più adatti per quella canzone. Mark Knopfler non è stato chiamato perché è una leggenda, ma perché ha quel suono sul dobro, quell’arpeggio che ha già usato nei suoi dischi coi Dire Straits e io volevo quel suono lì. È la specificità dei dettagli che è importante, non il nome, chiaro poi che se uno è diventato una leggenda possiede sia la specificità che il nome”.
E tra i nomi grossi da annoverare nei credits di “Black Cat”, non poteva mancare quello di Bono, già complice del simpatico siparietto andato in scena nel finale del live del 2015 degli U2 a Torino, quando il povero Zucchero fu invitato (in maniera pare vagamente coatta) da Bono ad accompagnarli nell’esecuzione finale di “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” per poi essere lasciato “come un coglione sul palco a fare ciao con la manina” (ipse dixit) sulla coda del pezzo, mentre la band salutava un PalaAlpitour in tripudio. Il frontman della band irlandese, infatti, è autore del testo di “Streets Of Surrender (S.O.S)”, brano di chiusura del disco, ispirato ai tragici fatti di Parigi.
Un pezzo impegnato, cui fa il paio “Hey Lord”, un gospel in cui riecheggia, come in altri momenti del disco, il riferimento “ai nuovi schiavi, che vediamo in questo esodo biblico che stiamo vivendo“. Un messaggio di riscossa serpeggia anche tra le note scanzonate del singolo “Partigiano Reggiano”, un invito allo “slempito” e “a fare muro con un ideale e un cuore unico contro ciò che li penalizza“, rivolto ai giovani. E, infine, immancabile, c’è la goliardica sensualità di “L’anno dell’amore” e “La tortura della luna”, ad aggiungere un po’ di cajun nel caratterino già abbondantemente speziato di questo “Black Cat”.