Alter Bridge Pordenone 26 ottobre 2011

Quattro date in Italia per gli Alter Bridge, band che sta diventando realmente importante nel nostro paese, avendo ormai un seguito consolidato e fedele all’interno dei nostri confini. Non c’è stato il tutto esaurito al Palasport di Pordenone, tappa conclusiva dei concerti programmati a meno di un anno di distanza dalla leg del 2010, ma si è verificata un’affluenza superiore alle aspettative, che ha riempito ben oltre la metà l’impianto del Friuli.

Myles Kennedy ci aveva detto senza giri di parole che ora era in grado di sfruttare la propria (stupenda) voce serata dopo serata, e dimostrazione migliore non poteva esserci: non un cedimento, non un’incertezza e quasi (“Broken Wings” esclusa, ma difficilmente ci si lancia) tutte le note alte colpite, affondate e dominate dall’inizio alla fine. Un frontman sempre più leader e che comanda la folla con lo sguardo, divertendosi e gustandosi ogni minuto di un pubblico adorante che canta, salta, poga e gode ogni istante del concerto. Il resto della band è la solita garanzia che ormai non fa più notizia, Mark, Brian e Flip sono un trio che qualsiasi singer vorrebbe dietro di sé, impeccabili, chirurgici e capaci di erigere un muro di suono che è stato progressivamente perfezionato e appesantito sin dagli esordi post-grunge di Creed-iana memoria (e in questo senso la curiosità per il ritorno dei tre con Stapp e per il progetto solista di Tremonti, previsti entrambi per il 2012, è molto alta). La setlist ha subito qualche variazione dell’ultimo momento, portando all’inserimento delle nuove “I Know It Hurts” e “Still Remains” a discapito delle colossali “The End Is Here” o “Watch Your Words“, le quali comparivano nel disco di debutto (era il 2004), lavoro che la stragrande maggioranza dei fan italiani di oggi conobbe forse nel corso del 2008, quando avvenne la release continentale del capolavoro “Blackbird” (a sua volta pubblicato in US nel 2007).

Un successo assoluto e meritato per un act che ha anche l’intelligenza di far esibire i supporter, Black Stone Cherry, a volumi più che degni, contrariamente a quanto accade di solito. E i quattro sfruttano l’opportunità per lasciare impressa nei presenti un’immagine notevole, spingendo al massimo con la distorsione e occultando così la loro parte più melodica e ruffiana, ben udibile su disco. Sicuramente però i ragazzi ci sanno fare, e convincono anche chi li ritiene una band di rock moderno made in US con troppi brani uguali tra loro.

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