L’alternative è di scena il 2 dicembre 2019 al Forum di Assago in una delle prime giornate veramente fredde di questo inverno. Alter Bridge con Shinedown e The Raven Age in apertura rappresentano quello che di meglio ha da offrire il metal alternativo, quello che ha il compito non scontato di farti cantare a squarciagola ma anche di farti dimenare in headbanging e perché no anche un po’ di pogo sotto palco.
Il lavoraccio di essere presente in rotazione pressante nelle maggiori radio statunitensi ed europee ma al contempo di offrire materiale tecnico per i palati sopraffini e per gli intransigenti della espressione strumentale e vocale. Un equilibrio fragilissimo tra qualità e resa popolare, un discorso in antitesi che ci portiamo avanti dalla notte dei tempi e che per approfondirlo servirebbe una parete intera di libri a riguardo. Limitiamoci a dire che ci sono occasioni in cui alcuni artisti riescono tramite l’ispirazione, il talento e la caratura artistica a trovare un magico incontro di intersezione tra questi due corsi apparentemente opposti.
Una zona fragile e bellissima in cui le melodie sono facili e assimilabili, ma la struttura e la resa della performance artistica è appagante anche da chi ha bisogno di stimoli più profondi. E allora, passati indenni il set dei The Raven Age e del loro trascurabile metalcore (per le statistiche il gruppo vede come chitarrista uno dei figli di Steve Harris degli Iron Maiden) eccoli gli Shinedown, gente che in questo trucco del rock per tutti senza crollare in qualità riesce in maniera egregia.
Brent Smith non è la furia di dieci anni fa e dei primi album del gruppo, che dopo tre LP di rock derivativo (agli inizi la sua vocalità era accostata a quella di Chris Cornell) sono arrivati con il quarto “Amaryllis” al vertice massimo di resa rock e radiofonica, con molti singoli in rotazione e una offerta soddisfacente anche a chi apprezza le chitarre e il sound heavy. Se con “Threat To Survival” la bilancia comincia a pendere un po’ troppo sul commerciale (il titolo pare ammetterlo, un trucco necessario per la sopravvivenza) è pur vero che è proprio da qui che proviene un dei pezzi più convincenti del set di questa sera, “Cut The Cord”. Pochi ricordi del passato, offerti tutti dallo strepitoso “The Sound of Madness”, con il granitico pezzo omonimo e con la perfetta ballad alternative “Second Chance”. L’ultimo album “Attention Attention” ha trovato il giusto equilibrio, portando al suo interno il pop spudorato di “Get Up” e l’energia rock di “Devil” che apre il concerto. Bret vive di rendita offrendo il suo timbro sensazionale, con pochi acuti e tanti aiuti dal suo dirimpettaio Zach Myers. La band comunque senza eccellere tiene il palco con carattere e spettacolarità, con una resa scenica che forse ha qualcosina da insegnare agli headliner.
Eccoli quindi gli Alter Bridge, che un po’ compassati salgono sul palco e aprono le danze con la nuova “Wouldn’t You Rather”, primo momento non proprio comprensibile di una scaletta strana che lascia perplessi sulla direzione che il gruppo vuole intraprendere. Hanno delle opener di resa nettamente migliore, lasciate nel mezzo come “Isolation” o addirittura come chiusura nel caso di “Addicted To Pain”. Sempre rimanendo nel discorso scaletta, fa molto pensare la scelta di introdurre una “My Champion” francamente fuori luogo e suonata con pochissima convinzione, un pezzo che in sede di registrazione è stata un po’ pretenziosa e che quindi o la fai con impegno o è meglio lasciare nel dimenticatoio, di un album, “The Last Hero”, che con il passare degli anni dimostra di avere sempre meno da dire.
“Walk The Sky” è il nuovo album di cui abbiamo in questa sede parlato e criticato nella sua scelta di mixing dei suoni, troppo stratificati e sporcati da sovraincisioni inopportune. E la prova del live lo conferma perché “Pay No Mind” suona perfetta con una linea vocale sola e con gli strumenti chiari e definiti, così come “Dying Light” e “Godspeed”, quest’ultima innegabilmente un nuovo classico della band. Giudizio sospeso invece per “Native Son”, che ha lasciato luci e ombre in ugual misura e di cui il giudizio è quindi sospeso e lasciato alla prova del tempo. Poi ragazzi, ci sono sempre i pezzi immortali della band e che fanno sempre il loro sporco lavoro. Sono “The Ghost of Days Gone By” e la dolce “Watch Over You” e quella che per anni è stata usata per chiudere le danze, il primissimo singolo “Open Your Eyes”. “Cry Of Achilles” che arrivata a metà ha dato una carica diversa allo show. “Metalingus” è un altro appuntamento imperdibile offrendo il drumming portentoso di Scott Phillips e con un Myles che fa accucciare tutto il parterre prima dell’esplosione finale, un segno che il ragazzo ha maturato un carattere finalmente da frontman, meglio tardi che mai.
Parliamo dei due protagonisti del palco, quel dualismo che ha dato fortune agli Alter Bridge, l’anima più dolce e naif di Myles contrapposta a quella più rigida e dura di Mark Tremonti. Un Mark insolitamente compassato, sullo sfondo. Non dialoga con il pubblico pur offrendo, oltre al consueto muro metal e agli assoli sempre perfetti, una presenza fisica monolitica. Si prende il microfono per il maestoso duetto con Myles in “Water Rising” (perché non un album intero così, con una dualità vocale che ha fatto le fortune di gruppi come gli Alice In Chains?) ma per il resto si ha l’impressione di un passaggio di consegne al collega di un gruppo di cui invece una volta era totale deus ex machina. Anche Myles, sempre strepitoso nel garantire una performance di parecchio sopra la media, è apparso un artista che si gestisce. Questa è l’impressione che ha dato tutto il set e che danno questi ultimi Alter Bridge. Degli stacanovisti che studiano e calibrano al millimetro i movimenti in modo da poter garantire un prodotto standard a tutte le date del tour. In questo modo non ci si trova davanti a grossi strafalcioni e delusioni, ma nemmeno nulla sorprende più. L’impressione di un freno a mano tirato Myles la sta dando da parecchio, contesto Slash compreso. L’acuto è tagliato quando va bene, saltato a piè pari il più delle volte. Va bene così, ma i ricordi dei primi show sono diversi e pensarci fa un po’ male.
Fa pensare a tutta la strada percorsa e alla stanchezza che questo comporta. E per chi gli Alter Bridge li ha visti nascere e chi è invecchiato con loro come il sottoscritto, questo amaro e dolce sentimento è il motivo per cui li si ama ancora senza riserve. Perché erano lì dietro un passo quando facevo l’università e lo sono ancora oggi che il mondo si è avviato in una strada a sempre meno corsie. C’erano quando nella mia vita entravano e uscivano persone come in una stazione rumorosa e affollata, mentre lo speaker enunciava con voce fredda e distaccata gioie e dolori, tragedie e trionfi. Gli Alter Bridge come ogni altra cosa cambiano, migliorano in certe cose e peggiorano in altre. Sono sempre lì però, e nella loro staticità performante si legge a chiare lettere il messaggio che più di tutti rimane ed è quello di crederci, crederci sempre.