Arctic Monkeys e The Kills, il report del concerto di Villafranca di Verona del 16 luglio 2014

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Fila tutto liscio come l’olio mercoledì 16 luglio 2014 al Castello Scaligero di Villafranca di Verona per il doppio attesissimo appuntamento con Arctic Monkeys + The Kills. Il colpo d’occhio entrando è dei più spettacolari: il palco si erge mastodontico davanti alle mura medievali del castello che circondano il pratone, già gremito prima dell’inizio del live del duo Mosshart-Hince, fissato per le 20 e 20 in punto (siamo in Veneto d’altro canto, s’è detto 20 e 20? E sono le 20 e 20!).

Ci pensano loro a squassare l’atmosfera rilassata della cittadina veronese; che attitudine The Kills! Carichi a pallettoni (diciamo) e accompagnati sul palco da due percussionisti che per tutto il concerto suoneranno all’unisono un paio di timpani sovrapponendosi qua e là alle basi ritmiche utilizzate come di consueto dal duo (scelta bizzarra, ma dal discreto impatto scenico, un po’ come il gigantesco telo leopardato che fa da sfondo), suonano un set di poco meno di un’ora. Sparano a raffica “U.R.A Fever”, “Future Starts Slow”, “Heart Is a Beating Drum”, “Kissy Kissy”, marcia e strisciante all’inverosimile, proprio come “DNA”.

Protagonista del live, come c’era da attendersi, un’indemoniata Alison Mosshart: incontenibile, occupa il palco muovendosi senza sosta, se non gironzola “nervosamente” è perché sta agitando la chioma, bionda sopra e nera sotto per l’occasione, o perché è attaccata a koala ai monitor; si lascia possedere dalla musica e quando imbraccia la chitarra randella per bene. Jamie Hince, fa il suo, che non è poco, tenendo in piedi gran parte dei pezzi con ottimamente congeniati riff di chitarra e lanciando di tanto in tanto, birretta al cielo, un brindisi ai colleghi Arctic Monkeys, al pubblico, alla nostra… “Baby Says”, “Black Balloon”, “Monkey 23” e una versione al fulmicotone di “Now Wow” sono gli altri ingredienti di un live semplice, ma estremamente incisivo. Rock, in una parola.

Cambio palco, l’attesa sale, si scopre la bella scenografia fatta di luci al neon che riproducono la grafica di copertina di “AM”, intro soft ed eccoli Alex Turner, Jamie Cook, Nick O’Malley e Matt Helders. Elegantissimi (completo scuro per Turner) attaccano con “Do I Wanna Know?”, seguita a ruota da “Snap Out Of It” e “Arabella” (bellissima la citazione di “War Pigs” dei Black Sabbath inserita a fagiolo nel pezzo), un trittico tutto giocato su toni raffinati e preziosi controluce, atmosfera letteralmente devastata dall’arrivo di “Brianstorm”: Turner non fa a tempo ad annunciare il pezzo che l’onda anomala della batteria di Helders ha già investito il parterre mettendolo decisamente in agitazione. “Don’t Sit Down ’Cause I’Ve Moved Your Chair” ristabilisce la calma pur mantenendo alta la tensione instillata dal pezzo precedente e “Dancing Shoes” a seguire, manco a dirlo, fa ripartire le danze e godiamocele, perché, se già Turner e soci iniziano a intercalare secondi e secondi di pausa tra un pezzo e l’altro, da qui alla fine del live sarà tutto un susseguirsi di ballads strappa mutande, tra le quali i Nostri butteranno una “I Bet You Look Good On The Dancefloor”, una “Library Pictures” e una “Fluorescent Adolescent” all’esclusivo scopo di non permettere ai più stanchi di assopirsi.

“Crying Lighting”, “Knee Socks”, “My Propeller”, “Fireside” e sono tonnellate di stile, quello degli ultimi lavori, nei quali a prevalere sulle caratteristiche sonorità nervose e la potenza dei riff che ce li hanno fatti amare all’inizio sono la scrittura ricercata, le atmosfere compassate, i toni confidenziali e una qual certa centralità (forse un po’ calcata) della figura di Turner, che sul palco si muove ormai come un vero e proprio crooner, abbandonando in parte l’eccessiva freddezza imputatagli in passato (parla col pubblico di Villafranca addirittura tre volte e sempre in italiano, fra un «buonasera» e un «grazie a tutti questa è “R U Mine?”»).

E va bene la svolta stilistica, ci mancherebbe altro, ma un conto è percorrere il proprio sentiero in studio, altro è proporre un live che funzioni, che tenga alti i ritmi e che non finisca per proporre una sola delle molteplici facce di una band che in tasca ha cinque album e due EP e quasi dieci anni di vita. Piazzatecela una “Teddy Picker”, una “Old Yellow Bricks”, una “Mardy Bum”, una “When The Sun Goes Down” e la lista dei pezzacci “vecchi” potrebbe essere ancora lunga. E invece no, “No. 1 Party Anthem”, “She’s Thunderstorms”, “Why’d You Only Call Me When You’re High?”, “505” chiudono prima dell’encore. A questo punto ci si augurerebbe che qualcosa di movimentato venisse buttato sul piatto, giusto per non lasciarci andare via con le pile ancora cariche, ma va: “One For The Road”, “I Wanna Be Yours” e “R U Mine?”. Suonano bene, molto bene gli Arctic Monkeys, non è certo una sorpresa, e probabilmente questa è l’immagine che oggi vogliono fare passare di sé, ma quanto sono “laid back”!

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