I Bloc Party finalmente tornano a Milano l’8 novembre 2012, dopo un’assenza di ben tre anni dai palchi nostrani. E lo fanno in un freddo giovedì sera di inizio novembre, tra la pioggia e la nebbia che circonda le contrade lombarde, in su, verso il capoluogo meneghino, in un locale, l’Alcatraz, che già li aveva ospitati in passato – che, com’è buona educazione con gli ospiti di riguardo, non si fa trovare impreparato in questa occasione: pressoché pieno allo spegnimento delle luci per l’inizio del concerto, e pronto dunque per dare un caloroso bentornato alla band. Una gran folla di nostalgici anni ’00, fan della prima guardia che glielo puoi vedere negli occhi, da quanto attendevano qualcosa del genere. Piacevolmente immerso in questa moltitudine, mi avvio e prendo posto tra le prime file.
Ad aprire il tutto ci pensano i PVT (conosciuti anche come Pivot), gruppo molto acclamato all’estero ma che qui non gode (ancora) di grandissima popolarità. La band, composta da tre membri, suona un post-punk minimale e cupo, fortemente contaminato da elementi di elettronica: dalla base a synth, agli effetti di loop e delay su chitarra, basso e voce, al vocoder su quest’ultima. Tengono bene il palco e ottengono di certo l’attenzione del pubblico con il loro show d’apertura, durato i programmatici quaranta minuti. Ne passano altri venti tra cambi-palco, check degli strumenti, pinte al bar e folta schiera di fotografi che prende posizione tra palco e transenne. Allo spegnersi delle luci si eleva il coro trepidante, e i quattro ragazzi-ormai-adulti inglesi fanno la loro comparsa sulla scena.
Il primo impatto è quello estetico, per forza. Sono cambiate molte cose durante la loro assenza, in primis il loro aspetto: Kele appare il doppio rispetto alla figura smilza delle foto datate 2007, Russell accorcia (leggermente eh, non sia mai) il suo bel ciuffone che ai tempi faceva gridare all’emo, Gordon ha preso diversi anni in più del normale, forse per via del bel paio di baffi che si è stampato in volto, e Matt… beh lui non è che sia tanto diverso, peli sul petto a parte. I Bloc Party si presentano da subito nella nuova forma, ovvero con So He Begins to Lie, tra l’altro traccia apripista dell’ultimo album, Four, uscito due mesi fa per la Frenchkiss Records. La veste live dona nuovo smalto ad un brano già ben assemblato, rendendo giustizia al breakdown noise forse troppo “contenuto” nella registrazione. A seguire viene proposto dai quattro un trittico electro-dance che, attingendo a ritroso dall’intera discografia della band, smuove la massa e fa ballare tutti i presenti: Trojan Horse, da Intimacy; Hunting for Witches, da A Weekend in the City; e Positive Tension, da Silent Alarm. Dopo una parentesi tanto sostenuta, è il momento di riprendere fiato e sperimentare al contempo un altro lato della band di Londra; con Real Talk infatti è tempo per le luci soffuse e i toni più temperati e intimisti, colonna portante del carattere del gruppo che già in passato aveva dato buoni frutti, e che anche qui non delude. Si resta sull’ultimo lavoro con la traccia seguente, anche se di tutt’altra fattura: Kettling, nuovo singolo con tanto di video ufficiale, è una canzone totalmente sperimentale per la band, che mai si era spinta prima d’ora su tonalità così simili all’alternative rock, ma devo dire che, anche in questo caso, il live non fa rimpiangere questa scelta. Si arriva al momento clou della serata con Song for Clay, canzone potente e dissonante che, come da tradizione, va in accoppiata con quella che forse è quella più nota del gruppo, ovvero Banquet: inutile dire che, allo scoccare delle prime note del pezzo, l’Alcatraz ha incominciato a saltare e dimenarsi come un’unica entità polifonica; un aumento di entropia a cui solo certe canzoni sanno dar vita. Il ritmo non scende neanche con la seguente, Coliseum, brano dalla doppia anima country/alt rock caratterizzato da continui cambi di tempo, davvero brillante e coinvolgente. Si riprende fiato per qualche minuto con la toccante Day Four, uno dei migliori brani del nuovo disco, e si riprende a danzare con One More Chance, accattivante e frivola, e impreziosita in questo contesto dagli improbabilissimi balletti di Kele. Chiude la prima parte dello show il primo singolo estratto da Four, Octopus, che viene già cantata dal pubblico come i classici più amati.
Il gruppo non fa in tempo a lasciare il palco per riposarsi in vista dell’encore, che già si scalpita e si ripete in coro il loro nome. Veniamo accontentati presto perché i quattro rientrano subito, e dopo uno dei tanti monologhi serali di Kele, ecco che parte la romanticissima Truth (i cori che si lanciano lui e Gordon nel ritornello un sorriso te lo strappano sempre, ndr), seguita dalla punkeggiante We Are Not Good People. Arriva così finalmente il momento di This Modern Love, un brano che è tutto un programma, cantato da tutto il pubblico tra accendini ben alzati e coppie abbracciate. Chiude il primo encore una traccia che fa venire voglia di ballare al solo nominarla, Flux, una delle più grandi hit della band, qui preceduta da un intro che altri non è che la cover di We Found Love, noto brano di Rihanna (anche questa è una tradizione dei live del gruppo). A chiudere la serata nel secondo encore ci pensano infine Ares, singolone alla Chemical Brothers proveniente da Intimacy (che mette alla prova ancora una volta le nostre gambe ormai infiacchite), e l’altra hit per eccellenza del gruppo: Helicopter, sulle cui note graffianti la band ci lascia, promettendoci di tornare al più presto in Italia (o quantomeno, di non mancare per così tanto). Personalmente non so se crederci, ma dopo una serata del genere, di certo lo spero.
Scaletta: So he begins to lie, Trojan horse, Hunting for witches, Positive tension, Real talk, Kettling, Song for clay, Banquet, Coliseum, Day four, One more chance, Octopus, Truth, We are not good people, This modern love, Flux, Ares, Helicopter.
Andrea Suverato. Foto di Rodolfo Sassano