Sold out all’Alcatraz di Milano per la barba più bella del mondo. Ormai l’algido nome di Bon Iver (pseudonimo dietro il quale si celano Justin Vernon e la sua band) si è fatto strada un po’ dappertutto, a suon di primi posti nelle classifiche nazionali, di premi vinti (tra i quali i due Grammy Awards, riconoscimenti insoliti per un artista così sperimentale), ma soprattutto di una musica tanto ispirata quanto fine e ricercata. E così a furia di raccogliere successi come fiori su un palcoscenico, ecco che alla sua seconda data italiana (la prima nel luglio scorso, in occasione del festival “Ferrara sotto le stelle”, ndr) si ripete quello che il musicista statunitense sta probabilmente sperimentando in ogni dove: una gran folla di gente che chiama a gran voce il suo nome. C’è chi usa la pronuncia francese – che credo sia la forma corretta –, chi quella inglese, chi adotta inedite varianti linguistiche, ma il concetto è sempre lo stesso. Pure il clima si è adeguato per dargli il benvenuto: davvero ben pochi i gradi sopra lo zero per le vie di Milano alla vigilia di Halloween – alla faccia degli altopiani del Wisconsin. Ma facciamo un passo indietro.
Sono le otto circa quando entro dentro, lasciando montgomery e condensa dal guardaroba all’entrata. Tempo venti minuti ed ecco che le luci si spengono per l’arrivo sul palco del gruppo di supporto, ovvero le britanniche Staves, trio di sorelle che ha fatto molto parlare di sé recentemente oltreoceano, e che dopo aver affiancato Mr. Vernon & co. nel tour statunitense, è stato confermato come band di spalla anche per il vecchio continente. Le tre seguono la via di un folk molto tradizionale, dove chitarre acustiche e ukulele offrono la base per elaborate sovrastrutture vocali, il cui intrecciarsi e sovrapporsi costituisce il vero punto di forza del gruppo. Il tempo con loro scorre piacevolmente, nonostante il classico (e chiassoso) gruppo di erasmus spagnoli sbronzi pronti a rovesciarti addosso l’impossibile sulla maglia – ma questa è un’altra storia. Le ragazze dopo una quarantina di minuti salutano, ci fanno una foto e lasciano il palco ai fonici. Si arriva così ai cori sopracitati (provate a indovinare chi sono i responsabili delle varianti linguistiche), fino a che il buio non cala nuovamente sulla folla, mentre si alza l’urlo di rito durante l’ingresso del gruppo principale. E che gruppo. La prima cosa che sorprende è la quantità di musicisti da cui è formata – nella sua versione live – la band “Bon Iver”: difatti, sebbene l’ideatore (e l’esecutore, nelle registrazioni) dei brani sia il solo Vernon, nelle esibizioni dal vivo quest’ultimo è accompagnato da ben 8 musicisti, per un totale dunque di nove elementi sul palco. Alla faccia pure degli Arcade Fire.
Questo ovviamente per rendere giustizia alla complessa ecletticità dei suoi brani, le cui innumerevoli campionature (vocali o strumentali), loops, e accorgimenti sonori non sarebbero altrimenti riproponibili sul palco. Non con l’effetto che un simile perfezionista esige, perlomeno. La barba prende la posizione centrale del palco, ci sorride al di sotto di una hipsterrima fascetta nera e intona con la chitarra le prime note di Perth, pezzo apripista delle tour. Brano ideale per iniziare, poiché è uno di quelli che più guadagnano dal live, permettendo inediti arrangiamenti ed un utilizzo più intensivo del distorto. Così accade anche per Towers, Calgary e Beth/Rest, dove al pattern folk del pezzo seguono incursioni strumentali post-rock davvero mozzafiato. Justin Vernon ha però molto carte da sfoderare, non solo il corredo strumentale: brani che esaltano il suo cantato soul come Holocene, Minnesota e Blood Bank; e come non menzionare sing-along ormai di culto, quali Skinny Love, Creature Fear e Flume. C’è poi un suo lato che riesce sempre a emozionare, ed è il suo intimismo. Un lato presente in tutti i suoi brani, ma che per quanto mi riguarda viene simboleggiato da uno in particolare. È tra l’altro la fotografia più nitida che ho di quella sera: un uomo, da solo, su di un palco lasciato momentaneamente libero dai colleghi; un uomo sulla trentina con imbraccio una chitarra, che si scioglie in una chiacchierata col pubblico che spazia dalla vita in tour, al pensiero della morte, alle controversie della religione, per approdare infine a una canzone magnifica, che parla di salvezza, Re: Stacks. Semplicemente sublime.
I Bon Iver infine, messe in cantiere anche le ultime note di For Emma, brano di chiusura, salutano il pubblico disposti in fila, ricevendo gli ennesimi meritatissimi applausi. Personalmente, come potevo non darglieli; si tratta di vera e propria riconoscenza: avrei abbracciato persino un erasmus, in quel momento.
Andrea Suverato
[youtube licVKBu3TOU]