Brad Mehldau pianoforte
Larry Grenadier contrabbasso
Jeff Ballard batteria
Personalmente considero il trio di Brad Mehldau come il migliore in circolazione ai nostri giorni; e mi è difficile trovare, nelle quasi due ore di concerto alla Sala Sinopoli dell’Auditorium, un qualche motivo di critica.
Quello che mi colpisce è la capacità di questo pianista (Florida, 1970) di saper narrare le proprie idee: un passo alla volta, dal basso verso l’alto, dal facile al difficile, senza fretta. Il suo indiscusso talento gli consente di partire da un modulo semplice, quasi elementare. Un mattoncino di due, tre note ripetute a formare un ‘ostinato’ sul quale si va a costruire, in un processo più chimico-alchemico che fisico-musicale, un aggregato armonico-polifonico che dispiega il pensiero e la rotta del brano.
Il processo è molto mentale ma non per questo soffre di cerebralità.
Il pianista non guarda i tasti del pianoforte, è come se seguisse, assolutamente concentrato, il filo dei propri pensieri. Molto lavoro è svolto dalla mano sinistra e quando la destra entra a contribuire il pezzo è già consolidato.
In tutto questo Brad è del tutto assecondato da una sezione ritmica in perfetta simbiosi: Grenadier e Ballard sono, infatti, dei fantastici comprimari che riescono a portare avanti il flusso di coscienza in assoluta trasparenza, senza opporre nessuna resistenza al carisma, perché è di questo che parliamo, del loro leader.
Quello di Mehldau è quasi un metodo e dunque si applica, virtualmente, ad ogni materiale, sia esso un vecchio spiritual di quelli che si cantano ad Harlem la domenica mattina oppure ad un brano di Nick Drake, il cantante poeta dai toni malinconici, o uno standard di Thelonius Monk…
Curioso come, pur partendo da un’impostazione molto razionale, è un’istintiva visceralità che via via emerge e si fa largo, sempre dosata, poco alla volta, per dar modo all’ambiente circostante di assimilare gli stimoli proposti.
Passa un’ora, poi ancora mezz’ora, e ci sfilano davanti evocazioni di John Coltrane, di Jerome Kern, di George Gershwin poi qualche brano originale (ma tutto quanto ci viene proposto è profondamente originale, così rifiltrato, rimasticato, rielaborato).
Come tutti i veri, grandi jazzisti si può partire da uno stupido jingle radiofonico ed arrivare ad un capolavoro, battuta dopo battuta, accordo dopo accordo.
Brad, timido, al termine di brano allarga gli applausi ai suoi due meravigliosi compagni d’avventura. Protagonista assoluto ma nulla affatto primadonna ci concede cinque, sei rientri, dopo consensi ed incitazioni di una sala stregata da questo Dedalo che riesce, ogni volta, a fuggire dal proprio labirinto volando via e portandoci, almeno per un tratto, con sé.
Marco Lorenzo Faustini