Arrivarci a 63 (Sessantatré, SEI TRE) anni come Bruce Springsteen: un carisma innato, una forma fisica invidiabile che fa ancora sognare l’universo femminile (ed invidiare, nella stragrande maggioranza dei casi, quello maschile) e una carriera musicale che, escludendo una parentesi incerta concentrata negli anni Novanta, è da annoverare tra i capitoli più splendidi di quel libro chiamato Storia del Rock. Più della bandiera a stelle a strisce, più dei barbecue alla domenica, più del cappello di JR, il Boss è il cantautore del sogno americano, di tutte le sue contraddizioni e le sue positività. Un uomo nato per correre.
E non è un caso che per la sua seconda data italiana del 2013, che si è tenuta ieri sera presso lo Stadio Euganeo di Padova, il musicista abbia scelto di incentrare la sua scaletta sul suo masterpiece Born To Run, album del 1975 e annoverato tra i suoi migliori dischi. Non una novità assoluta nelle sue recenti setlist (la stessa formula venne proposta in Danimarca pochi giorni fa), ma comunque un evento da segnare negli annali. E anche se l’apice a livello d’impatto visivo si è raggiunto nella title track suonata a luci accese, tutti i quaranta minuti dedicati al terzo disco della sua carriera sono stati estremamente coinvolgenti: ogni riferimento alla conclusiva Jungleland, traccia raramente proposta dal vivo negli ultimi vent’anni, è puramente casuale.
Fotografie a cura di Giuseppe Craca
Circa tre ore di concerto, iniziato poco dopo le 20.30 con una struggente The Ghost of Tom Joad e conclusa con la cover di Twist And Shout più volte messa in chiusura delle sue esibizioni. Tre ore nelle quali Springsteen fa dimenticare ai 40000 presenti il fatto di suonare all’aperto in una delle primavere più fredde degli ultimi anni e, soprattutto, quella pioggia che inizierà a cadere più o meno battente a live già iniziato: un rapporto amichevole quello con i fan italiani, messo in chiaro anche dalle frasi pronunciate in italiano più volte durante il concerto, che va oltre quindi i legami di sangue. Ad accompagnarlo la E Street Band, gruppo tecnicamente non esaltante (non nascondiamolo: sono stati diversi i momenti di indecisione tra i componenti nel corso della serata), ma in perfetta sintonia con il carattere di Springsteen: anima e cuore, e con il vuoto lasciato da Clarence Clemons colmato con risultati convincenti dal nipote Jake, dotato di una presenza scenica importante e di gran talento espresso più volte con il suo sax. Big Man al quale, insieme all’altro scomparso Danny Federici, viene dedicato un tributo video durante Tenth Avenue Freeze-Out, accolto da un lungo applauso nel momento più commovente dell’intera serata.
Un calore umano che, alla fine, emerge anche nel legame diretto con alcuni fan. Oltre a tre fortunati che vedranno diventare realtà le loro richieste espresse con dei cartelloni (a Padova è il turno di Boom Boom, Something In The Night e The Ties That Bind), il Boss coinvolge anche due ragazzini, tra cui uno protagonista di una strofa di Waitin’ on a Sunny Day cantata perfettamente, un fan di vecchia data che si unisce alla E Street Band armato di lamiera e due cucchiai (storia vera) su Pay Me My Money Down e due donne, una che, su invito della figlia, viene invitata sul palco per ballare con Springsteen durante Dancing In The Dark e un’altra che avrà l’onore di suonare la sua chitarra.
Al giro di boa del suo tour italiano diluito in quasi due mesi, Bruce Springsteen è stato protagonista di un concerto memorabile, con una scaletta ritenuta da molti fan tra le migliori proposte negli ultimi anni. Alla fine della serata, però, una domanda sorge spontanea: se la carica di Springsteen dal vivo, pur con alcuni limiti dovuti all’età e alle condizioni climatiche, è così travolgente anche alla soglia dei sessant’anni superata da un pezzo, com’erano i suoi concerti da trentenne?
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