Che non sarebbe stata una serata semplice per Ben Harper si sapeva da un pezzo. Quella di Pistoia era infatti la prima data europea di un tour molto particolare e molto poco europeo, che si discosta radicalmente dalla sua proposta musicale recente, ma che a conti fatti non si allontana di una virgola da quanto fatto nel corso della sua ormai ventennale carriera. È in forma Harper, come non lo si vedeva da diverso tempo: la vicinanza di un blues man di razza come Charlie Musselwhite l’ha riportato dove tutto è nato, dove lui stesso ha prodotto forse le cose migliori del suo repertorio e dove, inevitabilmente, a un certo punto della propria carriera tutti tornano.
Nonostante i mille progetti contemporanei, chi ama Ben Harper sa bene che quanto si ha a che fare con giovani vecchi come lui tutto può accadere, tanto che il concerto d’apertura del Pistoia Blues Festival si è trasformato in una sorta di grande prova generale del tour che verrà, con una scaletta evidentemente scelta a braccio e con improvvisazioni che nel corso dei mesi probabilmente assumeranno la forma dei classici cliché sempre uguali ad ogni data. Ieri sera, invece, l’unica cosa che si respirava era la voglia di tornare indietro nel tempo, di ritrovarsi idealmente a quell’incrocio dove Robert Johnson e molti altri dopo di lui (Page? Plant?) strinsero quel famigerato patto senza il quale, oggi, non avremmo nulla da infilare in uno stereo.
Il repertorio è simile a quello presentato nella prima tranche di tour, ma le sorprese non mancano, su tutte una versione straziante di When The Levee Breaks, che lascia di sasso i pochi a capire che si tratti di uno dei più noti brani dei Led Zeppelin. Il Ben Harper da Milano da bere, quello da andare a vedere dopo lavoro perché “fa figo”, per una sera non si è presentato e, francamente, ci auguriamo che non torni mai più.
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