“E’ tutto vero. Ma permettetemi di darvi un consiglio, che valga per le prossime due ore. Non ci pensate“.
Potrebbero bastare queste parole a riassumere le tre ore dell’ultimo concerto che mai vedrò di Ivano Fossati.
Perché non c’è molto altro da dire, perché di fronte alle emozioni che ho provato ieri sera il resto non conta, perchè ieri sera ho varcato la soglia del teatro, cercato la mia fila C posto 24 per sedermi sulla poltroncina rossa consapevole che sarebbe stata l’ultima volta. L’ultima. Avete capito? Io non ancora, ma forse perché, in un certo senso, sto ancora elaborando il lutto. Un lutto leggero, s’intende. Letterario. Che però dura dal 2 Ottobre, da quando cioè Ivano ci ha colpiti a freddo annunciandoci che dopo questo tour non sarebbe più apparso sul palco.
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Così queste tre ore (ascoltate bene, care band che suonate per un’ora e dieci: tre ore) sono passate come un battito d’ali e allo stesso tempo lentissime, perchè eravamo tutti lì a contare quanti minuti ci sarebbero rimasti da condividere ancora assieme. Proprio come quando si faceva il conto alla rovescia all’inizio della scuola, appena iniziava settembre. Siamo entrati nel suo mondo come sempre lui ci fa entrare. Abbiamo sentito sulla pelle tutta l’atmosfera delicata delle sue canzoni, della sua voce profonda e sicura, della sua musica pensosa e dolce. E ci siamo svegliati d’un colpo quando tutto era finito.
Se proprio devo trovare un neo a questa serata, a parte quello enorme dell’impossibilità di riviverla ancora, lo individuerei nella versione frettolosa di “C’è tempo“, una pratica doverosa e necessaria, ma da sbrigare presto, per non ascoltare il peso delle parole. Per non farsi sopraffare dal suo triste fascino.
[youtube r2sHqI4zsSg nolink]E’ stato come abbandonare il sacco amniotico. Il palco vuoto e silenzioso, i nostri occhi malinconici e lucidi. Fuori dalla porta il buio freddo di Dicembre.
Alessandro Tibaldeschi