Concha Buika… di persone come lei si è perso lo stampo.
E’ una forza della natura. Donna geyser, piantata in mezzo allo scenario fa sorgere dalle viscere della Terra un getto di voce calda che ci penetra fino alle ossa e ci prende il cuore. Quasi due ore di concerto, e non ce ne siamo accorti. Concha Buika scherza, fotografa i musicisti che l’accompagnano, fa di ogni pezzo un piccolo spettacolo in cui si arrabbia, ride, balla, improvvisa, crea, crea l’istante, dea con il viso di una maschera africana. Lei sceglie vecchie canzoni del flamenco, coplas spagnole, rancheras messicane, melodie africane, e le trasforma legando il tutto con l’improvvisazione jazz. Non fa fusion, buikizza, che non è la stessa cosa. Il mondo non è più lo stesso dopo il suo passaggio, una forza della natura, appunto. Come fa ad attingere da tante sorgenti per poi diventare sorgente lei? Forse perché Buika le regole non le segue, le fa, e scrive (o riscrive) pezzi che parlano dell’amore, dell’abbandono, della rabbia, della libertá con una sincerità che fa venire i brividi. Libera e grande, artista di enorme talento e professionalità ma anche accessibile e generosa, Concha Buika trasmette voglia di vivere e di fare musica, di essere liberi, come lei.
Grazie a Susana Mendo
A proposito di Concha
La prima cosa che osservo, di Concha, è la sua puntualità. E questa è già una bella sorpresa rispetto ad altre ‘divine’ che ci hanno tenuto anche 90 minuti a bagnomaria, in dolce attesa.
Inizia accompagnata dal piano con la sua ‘Niña de Fuego’ e subito dopo, ci incanta con un ‘Volver’ che avrebbe tolto il respiro anche a Gardel.
La voce di Concha Buika sa di Africa, di flamenco, ma è soprattutto la voce delle donne deluse dall’amore, delle donne tradite, umiliate. Eppure lei sceglie di non discendere mai la china solitaria della malinconia, dell’autocommiserazione, dell’amante sola che si piange addosso.
Anzi: c’è rabbia, c’è voglia di riscatto, c’è una sferzata di pura energia, la sua è una corsa dove lei ci trascina, tra citazioni, parafrasi, giochi di parole, autorionie, doppi sensi, preghiere “che quelli che ci hanno abbandonato che se ne restino ben lontani, che quelli che ci amano che si facciano più vicini”.
La parola si incastona nella gestualità, ogni parola ha il suo gesto. Ed il corpo accentua la distanza o la presenza, la tristezza o la gioia. La voce è incontenibile, eppure il controllo delle dinamiche è assoluto e mai si deborda nella banalità o nella macchietta.
E la band si muove in perfetta sincronia con la sua leader: gli assolo di tromba, il ritmo gitano del cajon, le congas, il basso, tutti accompagnano queste onde di voce che scivolano dal bolero al son, dal lirismo del flamenco alla ritmica pulsazione del funky.
Ho la sensazione che potremmo ascoltare qualsiasi cosa, ma ciascuna nota, ciascun parola sarebbe comunque filtrata da questa testolina pensante, con cuore e personalità da vendere.
Un’ora e cinquanta minuti scorrono senza nessun calo di tensione. Anche quando è un testo di Rocio Jurado (“si è rotto, l’amore, ma si sa che le cose africane durano poco”) che scorre, esso è del tutto stravolto, rimasticato e rimesso in discussione.
Canzoni concepite, a suo tempo, per raccontare donne abbandonate subiscono uno scambio di sesso: ora è l’uomo che implora il ritorno a casa, il piatto caldo di minestra, il pigiama a righe…
Potremmo andare avanti ancora ma anche lei, alla fine, è stanca. Ci congeda con un ultimo brano, solo voce e cajon e le mani, le sue mani che si dirigono, che si sfiorano creando un ritmo accarezzato e sensuale.
Ce ne andiamo via conquistati, sperando di ritrovarla presto.
Marco Lorenzo Faustini