Direttamente dall’Islanda arriva una band che sta esplorando i territori più oscuri ed esoterici dello Psych-Rock, inscenando un vero e proprio rituale intriso di misticismo sia su disco che nei concerti, dove l’aspetto visuale della loro arte torna ad essere protagonista. Sono i Dead Skeletons, un folto gruppo (6 persone) che a vederli non potresti che definirli personaggi. Dove? Al Circolo degli artisti di Roma – e dove sennò?
Ma prima… ci sono gli italianissimi Sonic Jesus: hanno in comune con gli Skeletons l’etichetta britannica Fuzz Club Records e qualche rudimento che ha a che fare con il genere: per il resto, anche in soli cinque brani, riescono a incidere ostentando senza riserve le loro assolute qualità: compattezza, tinte fosche e tanta, tanta potenza sonora. Avendoli visti già diverse volte – consiglio anche l’acquisto, rigorosamente in vinile, dell’EP omonimo di cui sono state eseguite le intensissime Monkey on my back e Underground, o aspettare il full-lenght a settembre – rimango sorpreso nel constatare la presenza di una front-woman dal look e dalle movenze post-punk: Lorenza, in arte Low Profile, vive a Londra e suona con una punk band dal nome impronunciabile: Mdme Spkr. Adottata dalla band laziale, insieme eseguono due interessanti inediti, Reich e Blake, ed una sorprendente cover di Somebody to love dei Jefferson Airplaine.
Trenta minuti sono pochini per i Sonic Jesus: ma che volete farci? Sono quasi le undici e fervono i preparativi per il set dei Dead Skeletons: mi trovo in prima fila e proprio davanti al mio muso viene installata una tela con su un mini-schermo che proietterà delle immagini – sempre le stesse, come un mantra – e delle parole – sempre le stesse, un mantra, in tutte le lingue del mondo (è un eufemismo, ma non sono poi lontano dalla verità) –: Chi non teme la morte non può godere la vita. Questo dovrebbe dirvi qualcosa del mix di musica, immagini e filosofia proposto: un modo di intendere l’arte di cui la band è tra i più autorevoli interpreti.
Un’introduzione con atmosfere da Hare Kṛṣṇa e si parte: in un attimo sono investito da un muro di suono: è Om Mani Peme Hung, tratta da Dead Magick; Nonni Dead (Jón Sæmundur Auðarson), responsabile dell’aspetto visuale della band, entra sul palco quasi fosse uno spettro: dipinge un volto barbuto sulla tela, appone il simbolo dell’OM sulla sua fronte e accende 6 ceri d’incenso che espandono ulteriormente le valenze sinestetiche di questo spettacolo: ogni senso è sollecitato e l’insieme delle percezioni inizia a pulsare all’unisono, conducendo le anime che riempiono la sala a fare i conti con la morte – per godere della vita, non dimentichiamolo. Seguono Buddha Christ, Kundalini Eyes e la psichedelia fumosa di Psycho Dead; sulla stessa scia l’energia sciamanica di When The Sun Comes Up.
L’effetto della multipla sollecitazione dei sensi inizia a penetrare sempre più a fondo nella coscienza: durante Ódauðleg orð si vive una sorta di trance,o ipnosi: non solo grazie alla musica, sempre più noisy e ossessiva; ma anche per l’odore d’incenso, ormai fortissimo, e l’immagine del teschio che continua a lampeggiare sullo schermo. Con i loro volti immobili e inespressivi Henrik Bjornsson e Ryan Carlson Van Kriedt ostentano un distacco straniante: con Nonni Dead hanno l’aria di essere tre emissari della Verità e grazie all’insieme di voci nell’esecuzione di Get a Train e Kingdom of God sembra di udire, sempre più grossa, la voce dell’unico Dio esistente, finora mai rivelatosi: quella Verità viene presto svelata in una nuova frase da salmodiare: All is One, sulle note di Om Vadra (inedito)e Lifðu!; impressionanti. E infine, a sancire quanto finora detto, cantato, visualizzato, evocato o invocato il concerto si chiude con l’attesissima Dead Mantra, di cui è piuttosto vano descrivere l’epicità.
Dubitavo di poter arrivare alla fine: pensavo che i fumi dell’incenso mi avrebbero sopraffatto – se non proprio intossicato: quando in chiusura Nonni regala quel che rimane dei ceri al pubblico, mi allontano. Non per scappare al banchetto del marketing, dato che è stato venduto tutto ben prima dell’inizio del concerto. Ma per tornare alla realtà e cominciare a riflettere in maniera razionale su quanto accaduto. E lì ho realizzato che la caratteristica di un live dei Dead Skeletons è proprio quella di riuscire a trascendere la coscienza per elevare lo spirito verso qualcosa di più alto e assoluto. Chiamatelo viaggio, rituale, esperienza mistica o psichedelica; poco importa. L’importante è esserci.
Cristian Ciccone
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