Il frontman perfetto trasforma la propria band in qualcosa di epico e la posiziona nella storia della musica. Il frontman perfetto non si limita a imbastire una pantomima superficiale sul palco cantando le canzoni sue o di altri. Lui si divide in decine di migliaia di fuochi fatui ed entra dentro a ognuna delle anime presenti al suo concerto.
Tutti, un ad uno, anche quello capitato al concerto perché a un amico avanzava un biglietto e per una sera ha dovuto rinunciare alla compagnia di Netflix per andare a vedere quel gruppo che ha fatto quella canzone famosa che ha sentito una volta alla radio. Il frontman perfetto va a prendere anche lui, il suo potere lo avvolge e gli afferra il mento e volge la sua attenzione al suo show, lo infiamma esattamente come tutti gli altri fan che lo seguono in un sentiero lungo decenni. Nessuno uscirà insoddisfatto dal concerto del frontman perfetto, nessuno rimarrà immune al suo fascino e alla sua eccitazione.
Se mai è esistito un frontman perfetto era sicuro sul palco di San Siro ieri sera. Dave Gahan è una fonte di energia immensa che non sente e non vede il logoramento degli anni. I Depeche Mode sono una macchina senza difetti che vede la straripante irriverenza dell’ego di Dave come apice di un iceberg dal calore ossimorico, una miscela rodata da anni e anni di attività, milioni di chilometri di musica, di sudore e di urla dei fan, decine di hit indimenticabili. Una band che è ormai un’istituzione e i cui fan hanno generato una legione fedelissima e adorante, ma che non si limita a correre con il pilota automatico. I Depeche continuano senza sosta a rendere onore a un reattore di ispirazione che non si esaurisce mai e ci regala sempre nuova musica di livello sopraffino, anche se ovviamente reggere ai capolavori del passato non è cosa semplice.
Una delle molteplici sfaccettature del successo dei Depeche Mode sta proprio nel ruolo delle canzoni recenti e della loro capacità di inserirsi all’interno del loro glorioso repertorio. Così subito la serata di ieri sera, dopo una piacevolissima comparsata di “Revolution” dei Beatles, le note della nuova “Going Backwards” del recente album “Spirit” fendono la serata ormai pronta a prendere il testimone a una delle giornate più umide e afose di questo periodo a Milano. Il pezzo è un’apertura perfetta, sia nell’album che per un concerto, una delle migliori mai scritte per questo ruolo di apripista. Potente, suadente, aggressiva ma marciante con ordine militaresco, “Going Backwards” è un’autoaccusa alla nostra apatia di massa.
La specie secondo i Depeche non si è solo fermata ma sta addirittura retrocedendo afflitta dalla sfiducia nei propri mezzi, nell’accidia di non decidere lasciandolo fare dagli altri per poi lamentarsi senza agire. Il meraviglioso video dove loro si presentano dotati di una barba bianca da padri fondatori è omaggiato da alcuni simpatici fan in prima fila inquadrati dai maxi schermi che portavano una barba di carta appesa ai loro volti.
Dave appare innalzato rispetto a noi e alla band, muovendosi in un modo unico. Decisamente uno degli esseri più sexy viventi, una sensualità che va oltre l’aspetto fisico e va oltre l’età e i generi. È nei movimenti, nei gesti e nel suo sconfinato ego. Dave è consapevole della sua forza e la sbatte in faccia a decine di migliaia, milioni di fan nella sua carriera. Il secondo pezzo è sempre da Spirit ed è “So Much Love” e cantando che c’è troppo amore in lui, Dave tiene fede alle parole mostrandosi a dir poco straripante. Movimenti pelvici e sculettamenti improvvisi mandano in visibilio il pubblico femminile, coronamento di una gestualità istrionica che è ormai un marchio di fabbrica, con quelle braccia che fendono l’aria indemoniate e sembrano lunghissime, talmente lunghe da arrivare fino a ognuno di noi per accendere la fiamma della nostra passione per la musica.
L’intrecciamento melodico tra le due voci principali appare subito in tutta la sua magia con i cori magnifici di Martin Gore e mi scuso se ho aspettato tanto a parlare dell’anima sensibile del gruppo. Martin appare particolarmente sobrio e posato, preciso e presente con la sua espressione da dolorante pierrot che accende di passione sofferta ogni nota prodotta, ma che è sempre pronto ad aprirsi in uno dei sorrisi più piacevoli che si possano immaginare. La sua chitarra è diventata un elemento irrinunciabile nel sound del gruppo così come il suo timbro caldo e profondo. Ben due momenti da ‘solista’ a lui ritagliati, come sempre unici e intensi. Un concerto nel concerto che ci ha regalato la immortale “Home” e “A Question Of Lust” nella prima parte e l’amatissima e dolce “Somebody” nella seconda, cantata a cuore stretto da tutti i presenti.
Il set è stato come ovvio una carrellata di successi che ha dovuto tenere alla porta qualche escluso illustre, inevitabile dal momento che non si può pretendere che facciano concerti da quattro ore. Quindi siamo usciti orfani di monumenti come “Policy Of Truth” o “Strangelove” o le più recenti “Precious” o “Dream On”, ma l’elenco potrebbe essere infinito.
Accontentiamoci, per così dire, del capolavoro barocco di “Walking In My Shoes” e della oscura “Barrel Of a Gun”, delle bellissima “I Feel You” e “In Your Room”, dei cavalli di battaglia “Enjoy The Silence” che dopo trent’anni è ancora uno dei migliori pezzi pop di sempre. Delle irresistibile “Personal Jesus” che ha chiuso il concerto e di “Never Let Me Down Again” che come a ogni volta fa esplodere la folla in migliaia di braccia alzate al cielo che ondeggiano a destra e sinistra concertate da Dave. Un colpo d’occhio impressionante, che ha portato tutti i presenti a fare un giro su se stessi per godersi la vista di un San Siro improvvisamente trasformato in un campo di grano sferzato da un fortissimo vento. Perfino un tributo al passato glorioso con “Everything Counts” che è stata una vera e propria festa celebrativa.
I Depeche sono anche uno statico ma adorabile Andy Fletcher, con la sua gestualità impacciata e i suoi occhiali da Terminator che sovrasta il gruppo dall’alto con la sua pianola gigantesca. Sono anche Peter Gordeno, che accompagna Martin nelle sue parentesi intime e il gruppo con cori sintetizzatore e basso in alcuni pezzi e Christian Eigner che dietro le pelli della batteria picchia come un matto e anabolizza i pezzi rendendoli potentissimi, come nel caso di una “Wrong” che ha fatto tremare le fondamenta dello stadio.
Particolare menzione alla cover di David Bowie “Heroes” che ha sbriciolato il mio scetticismo suonando in maniera imprevedibilmente piacevole, un sound molto eighties che ammicca ai Joy Division e ai primi U2. Dave cammina spesso sulla passerella trionfante nella celebrazione di un gruppo e una carriera che è ormai mito. Tira fuori a un certo punto una specie di fucile che spara tra la folla qualcosa, forse magliette. Sei matto a fare una cosa del genere di questi tempi? Dei tre cannoni uno fa cilecca ma tranquillo Dave, succede anche ai migliori.