Serata speciale per i numerosissimi presenti che hanno affollato l’Alcatraz di Milano per assistere alle esibizioni di due grandi nomi: da una parte i Sick of it all e il loro hardcore made in New York City, dall’altra il più noto tra i gruppi celtic punk in circolazione, un connubio forse inusuale, ma che ha regalato una serata di ottima musica ad alto volume.
Ad aprire le danze tocca ai canadesi The Mahones, nome che ci porta subito alla mente i Pogues di Shane MacGowan nonché il simpatico epiteto gaelico. La difficile posizione in scaletta non li scoraggia e complice anche l’avvenente fisarmonicista Katie McConnell, riescono ad ottenere un po’ di attenzione e a strappare meritati applausi.
Rapido cambio di palco e compaiono i fratelli Koller; Pete, una molla impazzita in giro per il palco, sempre ipertrofico e ipertatuato, con l’immancabile bandana e la cresta bionda, e Lou, meno “caratteristico”, ma fondamentale con la sua grinta ed energia. Malgrado il tempo passi anche per loro, i Sick of it all salgono in cattedra e spiegano agli ormai numerosi presenti (un po’ distratti a dire la verità), cosa sia un concerto HC sferzandoli a colpi di decibel. Il tempo a loro disposizione non è moltissimo, ma riescono a fare comunque un rapido sunto della loro carriera, suonando tra le altre “My life”, “Scratch the surface”, l’immancabile “Built to last”, fino alle più recenti “Uprising nation” e “Die alone”, trovando anche il tempo per introdurre un brano dal nuovo “Based on a true story”, in uscita ad aprile. Gran finale con la classicissima “Us Vs Them”, che conferma da una parte lo stato di forma eccellente della band e dall’altra fa ben sperare riguardo al nuovo lavoro.
Viene così il turno dei Dropkick Murphys, acclamati con il solito coro “let’s go Murphys”: il pubblico è tutto per loro. Orfani del valente The Kid (al secolo Marc Orrell) dal 2008 dopo l’uscita dell’ultimo “The meanest of times”, i Dropkick si prensentano con la nuova formazione, che vede Tim Brennan in pianta stabile alla chitarra. Malgrado ciò, l’impatto è come sempre notevole. Si parte subito velocissimo con “Famous for nothing” e, quasi senza fermarsi tra un brano e l’altro, vengono snocciolati alcuni dei pezzi migliori dell’ultimo lavoro, tra tutti “Johnny I hardly knew ya”, “(F)lannigan’s ball” e “The state of Massachusetts”. Molti anche gli estratti da “The warrior’s code”, con una “Citizen C.I.A.” tanto furiosa che pareva fossero tornati sul palco i Sick of it all. Non mancano certo i classici, anche se si è sentita, e non poco, la mancanza di “For Boston” o di “The wild rover”, “Rocky road to Dublin” e perchè no, anche di “Amazing grace” (compensata in parte da “Fields of Athenry”), ma non si può purtroppo avere tutto. A titolo di parziale risarcimento ci regalano però “The dirty glass” cantata da Stephanie Dougherty in persona e una successiva “Forever” veramente toccante, sentita e partecipata. Finale classico con “Kiss me, I’m shitfaced” e Ken Casey beato tra le fan, nonché con la solita pacifica invasione di palco sulle note di “Skinhead on the MBTA” e “Boys on the dock” e quello che pareva essere ormai diventato un angolo d’Irlanda torna il solito vecchio Alcatraz di sempre.
Setlist: Famous for nothing – The state of Massachusetts – Johnny, I hardly knew ya – (F)lannigan’s ball – Sunshine highway – Heroes from our past – Bastards on parade – The Spicy McHaggis jig – Echoes on “A” street – God willing – Buried alive – Surrender – The auld triangle – The warrior’s code – Citizen C.I.A. – Fields of Athenry – Captain Kelly’s kitchen – The gauntlet – The dirty glass – Forever – Worker’s song – Love & family – Barroom hero – Kiss me, I’m shitfaced – Shipping up to Boston – Skinhead on the MBTA – Boys on the docks
Livio Novara