Florence and the Machine, il report del concerto a Bologna del 13 aprile 2016

florence-and-the-machine-report-concerto-bologna-13-aprile-2016Unipol Arena, Bologna. Le aspettative per la serata sono al massimo. Sono passati nove mesi dal mio primo concerto di Florence and the Machine, al Sziget Festival 2015, e non posso fare a meno di chiedermi se il ricordo idilliaco che ne conservo sarà confermato o smentito. Ci vogliono circa quattro secondi per confermarmi che non ricordavo male.

L’opening act di Gabriel Bruce è terminato, il palco sistemato a dovere. Fa caldissimo, e come seguendo un segnale prestabilito le ragazze iniziano a raccogliersi i capelli in buffe crocchie, lasciando scoperti colli bianchi e sudaticci. Calano le luci, e la band sale sul palco in un tripudio di fari gialli che fanno sembrare The Machine un indefinito gruppo di ombre. Per ultima, Florence Welch.

La scaletta si apre con “What The Water Gave Me”; è un inizio intenso e suggestivo, ma ancora non si spinge al massimo sull’acceleratore. Poi arriva “Ship To Wreck“, e se prima c’eravamo, ora ci siamo ancora di più. Il brano esplode: la voce di Florence e gli arrangiamenti della band colmano l’Arena. L’ultimo album, il superlativo “How Big, How Blue, How Beautiful“, è rappresentato in pompa magna, fornendo ben otto brani su diciotto suonati: ci sono la sfaccettata title-track e la rapida “Delilah”, ma anche “Queen Of Peace”, col suo intrigante tema iniziale, e l’irrinunciabile “What Kind Of Man”, gelosamente conservata per gli encore. Tra i brani meno recenti, non mancano “Shake It Out”, “Dog Days Are Over” e “Cosmic Love”, sulla quale una coreografia organizzata dai fan riempie il palazzetto di palloncini rossi a forma di cuore. Il mio palloncino non sono riuscito a gonfiarlo tutto perché mi stava venendo un embolo, e sembrava più una tetta, rossa, ma l’effetto generale è stato molto suggestivo.

La band ha un ottimo tiro, e non sbaglia un colpo. Tutti gli elementi si integrano alla perfezione dal vivo come su disco, dagli strumenti della formazione rock più tradizionale fino alla sezione di fiati in gonnella (Non è una cosa sessista: erano davvero in gonnella). Florence Welch sembra nata per stare sul palco. Non me ne abbia a male Patti Smith, ma il termine “sacerdotessa del rock” sarebbe piuttosto adatto per definirla. Senza mai risparmiarsi, corre, salta e balla da un capo all’altro del palco, e ogni volta che ci racconta un aneddoto sulla scrittura di un brano (in breve, sempre durante i postumi di una sbornia) la sua voce cambia: la potenza lascia spazio alla dolcezza. Le uniche due parole che ricorda dai viaggi in Italia che faceva da bambina con la madre, studiosa del rinascimento, sono “fragola” e “limone”: i gusti del gelato. Come si fa a non darle a un abbraccio, a una che ricorda solo i nomi dei gusti dei gelati.

Altro brano che era lecito aspettarsi, subito prima di “Dog Days Are Over”, è “You’ve Got The Love”, abitué delle scalette ormai da parecchio tempo. Ma volendo prescindere dai brani suonati, a colpire di un concerto di Florence and the Machine è l’estrema intensità con la quale la musica viene eseguita, senza però mai scivolare in seriosità. Le canzoni ed il modo il cui vengono eseguite emozionano, e non so cosa si possa chiedere di più ad un concerto.

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