Foo Fighters, il report del concerto a Bologna del 13 novembre 2015

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Il 13 novembre 2015 era una data che avevo cerchiato sul calendario da moltissimo tempo, quella del concerto a Bologna dei Foo Fighters. L’entusiasmo, mio e di tutto il pubblico della Unipol Arena, che il tutto esaurito l’aveva realizzato in dieci minuti, era palpabile fin dalla calata del telone con il logo dei Foo Fighters, ultima sottile parete di stoffa che divideva la fase di attesa esasperante dal momento catartico del live.

E poi eccoli lì, i cinque rocker statunitensi, prendere il palco come pochi sanno fare, con Dave accomodato sul suo trono di chitarre, diventato iconico in brevissimo tempo, ma senza nessuno legittimato a contenderglielo, come il più sfortunato Trono di Spade cui si ispira. Il concerto inizia come da copione, seguendo una scaletta già prestabilita dall’inizio del tour europeo, che da “Everlong” a “The Pretender” strema il parterre tutto in un’unica volata (e buona parte delle tribune, difficilmente costrette sui seggiolini), solo per poi ammorbidire i toni e creare la prima vibrazione magica sui racconti di Dave, le sue prime volte a Bologna, all’età di 19 anni, e lo splendore commovente di “Big Me”, ripresa dal primo album dei Foo, perché loro ci avvertono fin da subito che nella serata troveremo di tutto, dal primo all’ultimo disco. E allora ecco il momento di bellezza e nostalgia, quello immancabile che trasforma il palazzetto in una costellazione mai avvistata prima, con i flash dei cellulari che per una volta creano lo show, invece di spezzarlo in frammenti da dare in pasto alla rete.

Ci si diverte, a un concerto dei Foo; si salta anche se non si vuol saltare, a un live dei Foo. È un greatest hits senza sbavature quello che mettono insieme, che non lascia scontento nessuno. Ed è innegabile che tra i meriti del gruppo ci sia proprio quello di riuscire a raggiungere davvero tutti, da chi si reca a un concerto ogni tot anni a chi ha fatto di club, arene e stadi la sua seconda casa; da chi si accontenta di ascoltare musica da supermercato a chi divora uscite discografiche come esigenza fisiologica. La loro imprescindibilità, a volte persino fastidiosa, li rende un mito vivente con cui fare i conti. C’è perizia nel loro mestiere, di musicisti prima e di entertainer dopo, in un mondo dove i due livelli si sovrappongono.

È banale persino dover sottolineare che la band è più che consapevole dei proprio mezzi e li sfrutta con sapienza per creare un live perfetto dal punto di vista della godibilità; che la sintonia è perfetta sul palco, che Grohl ha un carisma e una carica di positività che smuoverebbero le Alpi, che Taylor Hawkins ha i capelli sempre al vento anche se siamo in un posto al chiuso e ogni tanto si permette di rubare la scena a Dave (o forse più di furto si dovrebbe parlare di concessione), addirittura richiamando i gorgheggi di Freddie Mercury, con le immagini dell’immortale voce dei Queen che dagli schermi al fianco del palco rievocano altri tempi neppure troppo lontani. E su “Wheels”, quella canzone che “non suoniamo tanto spesso ma stasera abbiamo deciso di fare per voi“, non c’è niente di più concreto di quell’idea di vivere nel momento, tutti nello stesso, di partecipare al grande rito collettivo da cui il mondo esterno sembra escluso. Si ride su “Skin and Bones”, mai bella su disco come stasera dal vivo, e si creano dinamiche di scambio col pubblico, una conversazione tra musicisti ed audience che degenera in fretta portando a cantare un Manà Manà collettivo, con il frontman scomposto dalle risate dalla sua seduta regale. Non ci sono fronzoli, niente fiamme, niente coriandoli, esplosioni, macchine del fumo, solo la forza impattante dei Foo, uno splendido impianto luci e qualche gioco sugli schermi; non c’è la finta uscita di scena per il bis ma due ore e venti di rock, un’esperienza che fa bene all’anima.

Dopo le note conclusive di “Best of You”, a ogni persona del pubblico non resta che uscire con la soddisfazione di aver assistito a un live di grande caratura e di essere stato chiamato “pazzo” da Dave Grohl una decina di volte, e mai una non meritata.
Se non che il mondo esterno, che la musica dal vivo ha la potenza di farci accantonare come fosse una preoccupazione che non ci riguarda, è dietro la seconda parete della serata, stavolta invisibile, che una volta sfondata conduce fuori dalle porte del palazzetto.
E i resoconti tremendi delle centinaia di morti di Parigi fanno scivolare la scintilla di entusiasmo dagli occhi e il brivido nelle carni eccitate in pochi attimi, e diventa difficile provare a descrivere l’esperienza del live o fare una disanima del come o del perché i Foo Fighters siano un’incarnazione perfetta dell’industria musicale ma nel suo aspetto più positivo ed auspicabile. Avrei continuato a scherzare come faccio al solito con gli amici dicendo che Dave Grohl è Dio, ma di chiamare un musicista come un’entità nel cui nome continuano ad essere rivendicate vite non si sembra più giusto. Non stasera, che non c’è più voglia di scherzare. Non oggi che di musica si è morti, invece di rinascere.

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