Più che un concerto, una festa tra amici, venerdì 16 ottobre 2015 al Teatro Antoniano di Bologna. Glen Hansard termina lo show con “Passing Through” di Pete Seeger, uscendo dal fondo sala con la sua marching band, dopo aver attraversato la platea tra due ali di folla, dopo aver suonato il bis totalmente in acustico, senza microfoni, dalla galleria. Due ore e mezza di un set applauditissimo hanno dato la misura dell’affetto che circonda questo artista, con il pubblico invitato a farsi sotto il palco e già in singalong al terzo brano, “My Little Ruin”. Lui, prima, si era esibito anche in un negozio di dischi del centro, uscendo a suonare in strada per la gente che non era potuta entrare. Signori e signori, questo è Glen Hansard e se c’è qualcuno che possa raccogliere un’eventuale eredità del Boss, sembra avere tutte le carte in regola per farlo.
Meno roboante di Springsteen, ma dalla voce più articolata, capace anche di modulazioni flautate fino al falsetto (come nell’iniziale, bellissima “Grace Beneath The Pines”), vicino a lui nell’attitudine di coinvolgere il pubblico, raccontandosi, abolendo ogni distinzione tra palco e platea. In concerto, le sue ballate folk, grazie a due archi (violino e violoncello) e ad una sezione fiati (tromba, trombone, sassofono) diventano più corpose, come in “Winning Streak”o “Lowly Deserter”, merito anche di un chitarrista che alterna elettrica e bouzouki. E il pensiero va inevitabilmente alle Seeger Session di Springsteen o al Van Morrison dei tempi migliori, quando si infiamma sulla chitarra, quasi sempre acustica. Le canzoni partono spesso soffuse e poi esplodono improvvisamente in tutti i loro colori viventi, per poi rallentare ancora, in un gioco sapiente.
Insomma, un concerto che rimarrà memorabile per i cinquecento dell’Antoniano, con i biglietti andati a ruba settimane prima. Il ragazzotto dai capelli rossi dei Commitments è oggi un musicista a tutto tondo, circondato da una band che fa faville e può esprimere tutto il meglio del suo folk intinto di soul. E poi, proprio, come in una festa, chiama sul palco a suonare con lui altri amici, presi dalla platea: Caterino, con le sue percussioni, Dodo, che sfodera una bella voce in “The Gift”. E lui narra le storie che portano alle sue canzoni, di “come ti senti quando sei completamente distrutto dall’amore” (“Say It To Me Now”) o di “due tizi che se ne vanno su una barca in una notte nera contro uno scoglio” (“Talkin’ With the Wolves”) e la gente ride, annuisce, partecipa. Ad un concerto di Hansard è difficile starsene in disparte, poi ti fa saltare sulla sedia con un gospel come “Way Back in The Way Back When”, cantato con tutta la band o dedica a suo padre, “bevitore di grande talento” la rotolante “Didn’t He Ramble”. Gli chiedono “Drive All Night”, omaggio a Springsteen nei 35 anni di “The River”, e lui la fa cantare ad un ragazzino, Leonardo, all’inizio comprensibilmente emozionato, ma poi via via più sciolto in un’impresa non facile, naturalmente sommerso dagli applausi.
Due ore e mezzo di grande intensità, tra songs accorate e accelerazioni improvvise, sussurri e ululati alla luna. Hansard appare e scompare, come un folletto irlandese, come un pifferaio di Hamelin trascina la folla via con sé, verso la salvezza da tanta cattiva musica.