Glen Hansard: una pioggia di emozioni su Milano

Dopo le tappe estive al Firenze Rocks, al Collisioni Festival e l’indimenticabile concerto all’Anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera, Glen Hansard torna nel nostro Paese per tre imperdibili date del This Wild Willing Tour. La prima, quella di ieri sera al Fabrique di Milano, è accompagnata da un incessante diluvio, sicuramente familiare per l’artista irlandese, che non ferma tuttavia il caloroso arrivo dei fan, già numerosissimi per l’opening act dell’eclettica Nina Hynes.

Sono le 21 quando il cantante appare sul palco, elegantissimo: la barba curata, vestito e gilet scuri, sorriso sincero. L’ambientazione intima, ricreata dalle luci soffuse e dall’allestimento minimale, è lo scenario perfetto per ripercorrere i momenti più significativi di una carriera inaugurata come busker a Dublino, continuata come leader dei The Frames, come vincitore di un Oscar e, oggi, come solista consapevole, riconoscente di ogni cicatrice e dono offertogli dall’esperienza.

Dietro di lui, la sua band a cui dà il cenno del “via”, si può iniziare. Il ritmo dolente ed opaco di “I’ll Be You, Be Me”, brano di apertura dell’ultimo lavoro in studio pubblicato lo scorso aprile, leva il sipario su due ore e mezzo densissime di musica ed arte, tra attimi di allegria spensierata e picchi emozionali commoventi. “The Moon”, tratta dall’album “The Swell Season” (progetto omonimo del 2006), è una serenata alla luna che si innalza dalle corde dell’acustica intrecciate all’arrangiamento del violino della giovanissima Colin, a cui è dedicata la successiva “My Little Ruin”, ricordando il terremoto che ha colpito la Francia, suo Paese natale. L’arpeggio di “When Your Mind’s Made Up” riporta il cuore e la mente all’immagine della copertina di “Once”, pellicola del 2008 a cui Glen Hansard prende parte non solo per la composizione della colonna sonora ma nel ruolo di protagonista assieme a Markéta Irglová, con la quale nascerà il celebre sodalizio artistico e sentimentale. Se, sul finale, l’acuto struggente e argentato è dimostrazione di una voce impeccabile, poco dopo ci si stringe di nuovo nell’abbraccio di “Bird Of Sorrow” al piano e “Winning Streak” alla chitarra, entrambe eseguite in assolo.

I panni del cantastorie sentimentale, però, sono piegati e riposti in un baule per “The Closing Door” – dedicata a Bob Dylan e a tutti coloro che hanno il coraggio di agire per cambiare le sorti sia individuali che universali – e per “Race To the Bottom”, perle del più recente “The Wild Willing”, in cui ambizioni rock, folk, sperimentalmente elettroniche dalla potente muscolatura orchestrale compongono melodie che fanno il giro del mondo: dalle dune del deserto arabico, alle spiagge di un’isola deserta, alle vie della Seta, ai boulevard parigini, agli incroci newyorkesi degli anni trenta, intrisi di blues. Un tappeto di arrangiamenti intessuto sulle linee di percussioni decise, sassofono, archi, mandolini e sulla sei corde di Javier Mas, ex membro dell’entourage di Leonard Cohen, che incanta il pubblico su “Didn’t He Ramble”, sfociata in “L.A. Woman” dei Doors.

Si cammina sul filo di un perfetto equilibrio: sequenze così raffinate da sembrare piece teatrali – Glen si volta in direzione della luce, immaginando che sia proprio quello il raggio ad entrare dalla finestra di “Leave a Light” e spreme fino all’ultimo brivido la cassa di risonanza delle sue corde vocali in “Grace Beneath The Pines”, a cappella – si alternano a frangenti di accorata condivisione, addirittura del palco, con il fortunato Renato, chiamato a cantare “Time Will Be the Healer” con il suo idolo.

La chiusura del primo capitolo è incorniciato da una duplice dedica: per “Her Mercy” l’ispirazione è Bruce Springsteen e il film “Blinded By The Light”, fonte di riflessione sulle modalità in cui nasce la musica e, soprattutto la sua stessa musica. Il rimando alla leggenda del Nebraska crea anche l’occasione per accogliere la richiesta concorde del Fabrique: “Drive All Night” è intonata all’unisono, nel crescendo del coro e del volume. Per “Fool’s Game” i gradienti chiamati in causa sono la natura e il cuore: “Quando l’amore arriva, non esistono regole razionali. È puro magnetismo“. Una completa sommersione neo-folk, oltre sei minuti di pause, riprese, fascino e dolcezza sfumati negli incantesimi orientaleggianti della voce della pianista Romy.

Nell’encore, scrigno dei capolavori più attesi dal pubblico, si susseguono “Song Of Good Hope” (spesso presa in prestito da Eddie Vedder nei live in Italia), “Good Life of Song” e “Falling Slowly”. La canzone vincitrice del primo Oscar nel 2008, ogni volta, illumina tutte le sfaccettature di un diamante prezioso: romanticismo, comprensione, attesa, dolore, passione si redimono nella poesia dei versi “Well, you have suffered enough / And warred with yourself / It’s time that you won”.La quadratura del cerchio è affidata ad un salto nel passato con “Star Star” dei The Frames fusa nella tradizione popolare di “Most Beautiful Widow In Town” dei Sparklehorse che trasforma la location milanese in una via di Dublino, dimensione ideale del cantautore, intrisa di umanità e autentiche lezioni di vita e di arte. Quell’arte e quella musica a cui tributare un omaggio viscerale, selvaggio –appunto – celebrato nell’applauso riconoscente che esplode da sopra e da sotto il palco.

Cover story: Giuseppe Craca