Il concerto dei Guns N’ Roses a Imola di ieri era l’evento rock del 2017. Molto più del (mostruoso) record di Vasco, molto più degli U2 all’Olimpico e molto più degli Stones. Per chi era giovane nei Novanta, lo show dell’Autodromo era qualcosa che andava oltre un “grandissimo evento”. Ci siamo mobilitati in massa, questo è il risultato.
La scaletta del concerto
It’s So Easy
Mr. Brownstone
Chinese Democracy
Welcome to the Jungle
Double Talkin’ Jive
Better
Estranged
Live and Let Die (Wings)
Rocket Queen
You Could Be Mine
Attitude (Misfits)
This I Love
Civil War
Yesterdays
Coma
Slash Guitar Solo
Speak Softly Love (Nino Rota)
Sweet Child O’ Mine
My Michelle
Wish You Were Here (Pink Floyd)
November Rain
Knockin’ on Heaven’s Door
Nightrain
Don’t Cry
Black Hole Sun (Soundgarden)
The Seeker (The Who)
Paradise City
Chiunque definisca Chris Martin o Matt Bellamy delle rockstar probabilmente non ha mai visto su un palco il Signor Rose
di Luca Garrò
Arrivi all’Autodromo Enzo e Dino Ferrari, guardi il palco (privo di qualsiasi genere di orpello o trovata scenica) e capisci immediatamente che stasera la musica sarà l’unica protagonista dello show più atteso dell’affollatissima stagione concertistica nostrana. Giusto così, perché l’idea di vedere in Italia sullo stesso palco Axl Rose, Duff McKagan e Slash dopo quasi venticinque anni merita tutto fuorché una baracconata in stile Mötley Crüe o comunque, se qualche effetto scenico è doveroso che ci sia, è bello pensare che lo spettacolo sia stato creato su una setlist monstre piuttosto che su amenità atte a distogliere l’attenzione dall’esecuzione dei brani.
L’attesa è spasmodica, soprattutto per le migliaia di eroi presenti ai cancelli fin dalle luci dell’alba, così come una sete di rock (ormai) classico che il Dj set messo in piedi da Virgin riesce a smorzare soltanto in minima parte. Decisamente meglio va con i Darkness, ormai una sicurezza in quanto a presenza scenica e numero di hit a disposizione. La band dei fratelli Hawkins (e di uno strepitoso Rufus Taylor) delizia il pubblico con cinquanta minuti di rock sudato, cazzone e autoironico, in grado di ammaliare senza soluzione di continuità fan di Queen, Thin Lizzy, T. Rex e, va da sé, Guns N’ Roses. D’altra parte, chi li ama e ha buona memoria, si ricorderà che nel 2006 la band era riuscita in un’impresa ben più complicata: quella di far muovere il culo ai fan dei Metallica in attesa della riproposizione per intero di Master Of Puppets.
“I Guns saliranno sul palco puntualissimi alle 20.45” – ci aveva comunicato un paio d’ore prima Roberto De Luca (AD di Live Nation Italia) – ma in pochi ci avevano creduto davvero. Chi segue la band, invece, sapeva perfettamente che questo “Not In This Lifetime Tour” si discosta moltissimo dalle scorribande cui la band aveva abituato pubblico e promoter durante il biennio ’91-’93: segno dell’età, si dirà, ma anche di una consapevolezza e di una professionalità che ai tempi sembravano impossibili per dei ragazzi che, in pochissimo tempo, dai pub di L.A. erano stati catapultati in un mondo fatto di vizi di ogni tipo, limousine, escort (come si preferisce dire oggi) e idolatria isterica da beatlemania. Se un tempo la prassi era quella di aspettare la band per un paio d’ore (ad onor del vero quasi sempre a causa di Axl), oggi tutto sembra funzionare in maniera opposta, tanto che la sigla dei Looney Tunes che precede l’ingresso del gruppo parte addirittura con dieci minuti d’anticipo. Il timore che tutte queste cose possano togliere un po’ di quel sano fascino rock ‘n’ roll a tutta la faccenda viene fugato dall’attacco di “It’s So Easy”: i Guns sono tornati e, a quanto pare, per restare a lungo. Al di là della forma fisica dei vari musicisti e di descrizioni che lascio volentieri ai commenti di Facebook, vedere quei tre allineati basta a cancellare immediatamente venticinque anni di sogni infranti.
La setlist, come da pronostico, è di quelle che non possono scontentare nessuno: ci sono tutti i classici, ci sono le ballad strappamutande e i pezzi tiratissimi, le chicche (“Coma” uno dei momenti più incredibili del rock in Italia degli ultimi dieci anni) e persino pezzi dell’ottimo, sì ottimo, “Chinese Democracy”, che purtroppo non canta nessuno, al pari di brani come “Double Talkin’ Jive”, “Yesterdays” o la stessa “Coma”. Questo sì un segno inevitabile dei tempi e del pubblico da cinquecento giga di musica sull’IPhone, che perde il cervello davvero solo sui soliti cinque o sei pezzi.
Parlare di Axl è ormai superfluo: guardarlo negli occhi, cercare di carpirne qualche emozione e vederlo passare dal classico sguardo intenso e perso chissà in quale pensiero ai sorrisi per la gente stipata di fronte a lui, beh, ci fa innamorare nuovamente di una delle figure più affascinanti dell’intera storia della musica popolare. Chiunque definisca Chris Martin o Matt Bellamy delle rockstar probabilmente non ha mai visto su un palco il Signor Rose. Slash, come previsto, è l’altro gigante della serata. Quando venne annunciato il suo ritorno, Dj Ashba, che ne aveva ricoperto a lungo il ruolo, invece delle classiche dichiarazioni da animale ferito, sedotto e abbandonato da quel birbone di Axl Rose, disse che per ogni fan dei Guns come lui quello era un sogno che andava a realizzarsi. Ogni movimento, ogni assolo, ma anche solo l’imponenza dell’ultimo vero erede di una stirpe di musicisti che con lui va inevitabilmente ad estinguersi, è stato in grado di lacerare l’animo di ogni presente all’autodromo. Una delle sorprese più gradite del concerto è stata la riproposizione di “Black Hole Sun”, omaggio a Chris Cornell che non potrà durare in eterno, ma che ogni sera sembra acquisire spessore ed intensità: forse il tributo più genuino al cantante dei Soundgarden sentito dal giorno della sua scomparsa.
Probabilmente la cosa più incredibile e sottovalutata dei Guns resta proprio l’eclettismo della loro proposta: nel loro DNA c’è il punk, il rock ‘n’ roll delle origini, il Blues del Delta così come la Swingin’ London, gli Aerosmith, gli Stones, il Glam anni ottanta e persino Elton John. Questo mix di influenze e generi permette loro ancora oggi di prendere un brano altrui, di qualsiasi artista o genere musicale, e di farlo proprio, una cosa molto più difficile di quel che può apparire ai più. Detto ciò, il più grande di tutti, ad ogni modo, in fondo resta Duff. Bello come mai, nemmeno negli anni d’oro della band, preciso, incazzato come solo un vero punk sa essere e sempre fedele alla linea. Quando, prima della splendida “Attitude”, il bassista accenna “You Can’t Put Your Arms Around A Memory”, capolavoro assoluto di quel genio dimenticato di Johnny Thunders, capisci davvero che cose così capiteranno forse solo una volta nella vita. O forse no, visto che fonti certissime dicono che l’estate prossima…
>> Qui le foto del concerto di ieri
Perché un concerto dei Guns N’ Roses è ancora l’evento rock più grande della nostra generazione
di Daniele Corradi
Abbiamo assistito a uno degli eventi rock più grandiosi della nostra generazione, con protagonista una band che della nostra generazione non è. Così come, sempre qui all’Autodromo di Imola, un altro grande evento che ricorderemo per sempre vedeva sul palco una band ancora più lontana dal nostro presente musicale, gli AC/DC.
Così il “Not In This Lifetime Tour” dei Guns N’ Roses ha fatto entrare noi e il nostro Paese negli annali della storia del rock, noi che siamo cresciuti con le loro canzoni spalmate in ogni contesto, che fosse una schitarrata in riva al mare, che fosse lo sfondo di pomiciate o di corse folli in autostrada, che le note di “November Rain” avessero accompagnato i nostri pomeriggi fautori di un inverno alle porte (aprite Facebook il primo di novembre e verrete sommersi da questa canzone, come aprendo le ante del mio armadio sareste investiti da una valanga di vestiti accatastati male), che quel giro eterno di chitarra di “Sweet Child O’ Mine” abbia permeato talmente tanti ricordi che al solo accenno di Slash su quel palco gli occhi degli ottantamila e più ieri si sono fatti vacui e schermo di un film di episodi e vite, persone e cose che si sono avvolte in un fiume immenso che ha creato un’atmosfera di emozioni che ha reso l’aria più leggera.
Questo è. L’epicità di un evento è un piatto di alta scuola culinaria composto da tanti elementi fusi insieme da una sapiente mano, uno chef che sa fare il suo lavoro in maniera impeccabile e che sta sopra i nostri destini, intrecciandoli e componendoli in uno spettacolo di marionette impazzite che si fissano in tante di quelle vite da perdersi nell’immenso oceano dell’esistenza. Volete chiamarlo Dio del Rock, il martello degli dei? Fate come volete, ma ieri era la musica, erano quelle incredibili canzoni raggruppate in quel magnifico greatest hits che ci hanno offerto i Guns con la loro scaletta.
Erano le transenne, l’asfalto, erano i tatuaggi delle persone che incrociavamo, i cappelli e le canottiere, il cielo che si faceva rosa alla fine del set degli apripista Darkness, eravamo noi. Gli assoli di Slash, Duff e il suo basso così chiaro e deciso (e come cazzo è possibile essere così fighi a 53 anni?) era Axl che è riuscito a vincere l’avversione del suo vecchio pubblico alla sua forma fisica, facendola diventare un elemento tenero, simpatico, anche quello diventato di aggregazione e non di divisione. Axl ora canta così nonostante il suo invecchiamento non proprio gentile. E come canta ragazzi. Come suonano.
Gli amici con i quali abbiamo condiviso tutto questo, il pensiero a chi non c’era è un po’ gli sta bene, a chi non c’era e un po’ ci dispiaceva, a chi c’era di fianco, chi dietro e chi davanti, tutti eravamo partecipi di un evento che al di là della qualità dello show definirà la nostra generazione di amanti del rock. Come i Pink Floyd e i Led Zeppelin e gli Who hanno marchiato le dinastie rock che sono venute prima, e come gli stessi Guns hanno marchiato quella dei nostri fratelli maggiori, così noi nel 2017 siamo entrati dalla porta principale degli annali della musica.
Perché volenti o nolenti, i Guns sono risorti esattamente come se ne sono andati, come una delle band più enormi del globo. Che sia per soldi (potrebbero azzerare i debiti di tutto il mondo rompendo il salvadanaio di questo tour) che sia per vocazione, il gruppo di attempati e appesantiti rocker sono ricomparsi per riempire un enorme vuoto. Perché potete non essere d’accordo con me ma questo momento storico del rock verrà ricordato non per le sei date consecutive dei Muse a Milano, o per i sempre dichiarati ultimi album dei Coldplay che invece non finiscono mai, o per la miriade di gruppi indie con cicli di vita stagionale.
Ci ricorderemo di noi, di come eravamo, della musica che ascoltavamo e con chi l’abbiamo condivisa grazie ad eventi come questo, la reunion dei Guns N’ Roses, il più grande e importante raduno rock della nostra esistenza, e a meno di cose clamorose come rivedere Pink Floyd o Led Zeppelin, non aspettatevi di vedere qualcosa di più epico. Perlomeno, not in this lifetime.