L’I-Day 2010, come ogni festival che si rispetti, è un girone infernale di polvere alzata ballando e fango attaccato alle scarpe. L’ I-Day 2010 è un occasione troppo ghiotta per perderla. Come rinunciare ad una line-up che prevede prima i Fanfarlo, dei quali finalmente ci si accorge, i Modest Mouse, e dico i Modest Mouse, uno dei gruppi meno riconosciuti in Italia (infatti a suonare ci vengono ogni morte di papa) e gli Arcade Fire, la grande promessa, la grande conferma e ora il grande ritorno? Un’occasione così, davvero, non poteva sfuggire.
Entro nella bolla d’aria calda che circonda l’Arena Parco Nord nel tardo pomeriggio, arrivo presto
per riuscire a vedere i Fanfarlo, che quando raggiungo il palco stanno per iniziare. Simon Balthazar è una figura magnetica quanto la sua musica: non ci vuole molto perché il pubblico rimanga piacevolmente sorpreso, o definitivamente conquistato, da questi ragazzi di Londra e dai loro pezzi che sembrano suonati da un’intera marching band entusiasta, tanto è stratificato il suono, tanti strumenti sanno suonare.
Quando la scena passa ai Modest Mouse, loro si conquistano l’amore dello zoccolo duro di fan col cappellino da nostromo aprendo il concerto con Dramamine, il suo andamento ipnotico culla tutti per poi lasciarci nel mare inquieto di Isaac Brock. Bellissime Third Planet e l’inaspettata Paper Thin Walls, ripescate dal cappello grazie alla riedizione in vinile di The Moon And Antarctica, le danzerecce Float On e Black Cadillacs, dall’altro classico Good News For People Who Love Bad News e Bukowski, penalizzata da una resa dei suoni pessima e poco giustificabile, per un concerto di così alto livello.
Il pubblico è spudoratamente in prima fila per gli Arcade Fire, e non fa mai a meno di farlo notare, fra gesti dalla mimica fin troppo chiara e schiamazzi nel mezzo delle canzoni. Isaac Brock fa buon viso a cattivo gioco e va avanti, con la sua espressione da ti-metto-il-gatto-nella-lavatrice-e-rido e i suoi pezzi lucidamente allucinati, i riff fra il tecnicismo e la follia disorganizzata. Inutile dire che, arrivato l’ultimo pezzo, la felicità si fa incontenibile: finalmente se ne vanno i Modest Mouse, questi illustri sconosciuti che suonano da quasi vent’anni, e arrivano gli Arcade Fire, in un concerto di urla che neanche fossero i Beatles al Vigorelli nel 1965. Tristezza.
Cosa dire degli Arcade Fire, poi? Che sono bravissimi, che quando suonano la sensazione è quella di una festa, il palco disseminato di strumenti e strumentini e Règine che balla come un’ossessa col suo vestitino leggero. Che hanno una scenografia spettacolare (un maxischermo fatto come quelli dei drive-in americani), che hanno appena fatto uscire un disco bellissimo che dal vivo è già un classico: la gente lo canta già tutto…
La scaletta è un bel collage di successi vecchi e nuovi fra i quali spiccano l’entusiasta No Cars Go e e il trittico Rebellion/Lies, Power Out e Tunnels per i nostalgici di Funeral, l’album del debutto a cento all’ora.
Le nuove The Sprawl II, dove Règine gioca ai Blondie, e Month Of May, anelli deboli del nuovo The Suburbs, dal vivo sono fra le più interessanti, vuoi anche per la loro carica emotiva, che sul palco esplode in maniera molto più dirompente. Affascinante Haiti, dove ancora una volta è lei a cantare, e a coinvolgere nel racconto della sua infanzia bella e violenta. L’atmosfera si spezza bruscamente con l’arrivo di We Used To Wait: altra nostalgia, perché gli Arcade Fire si nutrono di quella, ma stavolta si parla di Houston e dell’adolescenza, tema portante del loro nuovo lavoro.
La chiusura spetta a Rebellion/Lies, poi il bis, chiamato dal pubblico fino allo sfinimento: Keep The Car Running e Wake Up, che si ballano fino alla fine, io mi lascio affascinare dal fratello di Win, perso via nel suo mondo, che percuote tamburi e piatti e tutto quello che gli si para davanti mentre si agita forsennato sul palco, impersonificazione perfetta della furia dal vivo di questo gruppo, che gli album li fa stupendi, ma i concerti ancora di più.
Francesca Stella Riva