Quando di ritorno da un evento live si sente urgentemente il bisogno di mettere per iscritto quanto appena ascoltato, come se avessimo l’esigenza di raccontare a un amico fidato un accadimento del tutto nuovo e carico di dettagli piccanti, allora significa che chiunque sia artefice di tale evento è riuscito ad arrivare dritto in mezzo allo stomaco di chi ascolta.
Venerdì 16 aprile il Disordine Delle Cose si presenta al Tambourine di Seregno, che da un po’ di tempo a questa parte propone sul suo palco un interessante assortimento acustico, in una serata umida e fresca. Il sestetto novarese propone dal vivo la loro omonima opera prima, uscita ormai lo scorso ottobre ma ancora tiepida e croccante di forno. L’ensemble, composto da Marco Manzella alla voce, Emanuele Sarri alle chitarre, Vinicio Vinago alla batteria, Alessandro Marchetti al basso, Luca Schiuma al piano e Mattia Boschi al violoncello, comincia seduto. Seduti rimarranno per tutto il resto della serata, ma solo con il corpo, la mente è ben lontana.
Si comincia con un intro strumentale che è subito in grado di mettere a proprio agio un pubblico per nulla trattenuto, sia nel numero che nella generosità con cui accoglie i Nostri. Certo tra l’audience si nota una valida “curva” di tifosi provenienti dalla vicina patria dei Disordine, ma questo non pregiudica un consenso che da metà concerto in avanti ormai dilaga e rinfoltisce un uditorio già inizialmente ben assortito. Fin da subito la voglia che coglie, per lo meno la sensibilità di chi scrive, è quella di prendere la macchina in un tiepido e gentile pomeriggio di metà Maggio e portare la propria fidanzata al mare. Le parole sussurrate di Manzella sono in grado di non rompere l’equilibrio sonoro delicatamente cucito dalle architetture melodiche di un violoncello all’altezza del ruolo di vera e propria seconda voce.
Le arie sono leggere e gli arrangiamenti caldi e rassicuranti, con incalzanti digressioni ritmiche che consentono di non perdere mai di vista un discorso dai lineamenti poetici.
L’apparenza come sempre inganna, e se immaginando un sestetto che si presenta seduto e fornito di violoncello state già pensando di abbandonare qualsiasi velleità rockettara, siete sulla strada decisamente sbagliata. Solide sferzate di un ormai onnipresente archetto dai muscoli di carta e una sezione ritmica solida sono in grado di sostenere omaggi d’autore, come la pillola di Perfect Day in coda a “Quella sensazione di comodità” o l’”Hommage a Violètte” degli Area subito dopo a “Lacrime e fango”.
L’atmosfera è mutevole e si passa dal Blue Note newyorkese alla Parigi di Ameliè. Il palco diventa un salotto dove ognuno prende possesso di un cantuccio e si nasconde ad arte nella celebrazione degli altrui momenti di gloria. Dopo l’assolo uno alla volta risorgono dal silenzio giustamente dovuto. Violoncello in estasi degno di un orgasmo in un momento di improvvisazione corale, verace e consistente.
In conclusione 17 pezzi che per un’ora e mezza ci fanno dimenticare della Seregno dalle poche speranze e ci concedono un’ariosa parentesi su un panorama musicale che da un po’ di tempo a questa parte sembrava essersi inchiodato su posizioni aridamente manieriste.
Setlist: Long road, L’altra metà di me stesso, L’idiota, La preda, Muscoli di carta, Il colore del vetro, Scrigno, La mia fetta, Don Giovanni, Glass onion, Infezione, Quella sensazione di comodità, Lacrime e fango, Hommage a Violètte, L’astronauta, Sottile ipocrisia.
Francesco Casati