Difficile raccontare un festival di questo tipo, specie per l’abisso qualitativo tra i gruppi che si sono esibiti nel pomeriggio e gli show serali di Tool e Nine Inch Nails: purtroppo, tanto sono stati eccelsi questi ultimi, quanto scadenti sono stati i primi. Ma andiamo con ordine.
Aprono, sotto un sole cocente, i nostrani Petrol: hanno pubblicato da poco il loro debut album, “Dal Fondo”, e cercano di far muovere il pubblico (ancora sparuto, sono le 2 del pomeriggio). Loro sono una sorta di “supergruppo” italiano, potendo contare su ex membri di Marlene Kuntz e Fluxus: non si discute la loro preparazione musicale, peccato che il loro indie rock spruzzato qua e là di noise sia piuttosto scontato e privo di guizzi degni di nota. Peccato, perché non si tratta certo degli ultimi arrivati, ma un po’ più di distorsione non guasterebbe.
Se i Petrol non convincono del tutto, ma hanno dalla loro qualche buona qualità, lo stesso non si può dire per gli sconcertanti Billy Talent: arrivati al secondo disco (ma hanno alle spalle una carriera molto travagliata che dura da quasi quindici anni), i canadesi ce la mettono tutta sulle assi del palco, ma la loro foga non può mascherare una chiara mancanza di talento (e scusate il gioco di parole). Il loro emo – punk non colpisce mai nel segno (sembra una brutta copia degli At The Drive – In ibridati con qualche gruppo di hardcore melodico a caso), e a peggiorare ulteriormente la situazione ci si mette lo scream fastidiosissimo del cantante, acuto, stonato e privo di qualsiasi grazia. Fatico veramente a comprendere il successo del loro ultimo album, così come non mi capacito del loro contratto con una major: misteri del music – biz. Io intanto cerco di dimenticarmi al più presto il loro concerto.
Va un po’ meglio con i successivi (…And You Will Know Us By The) Trail Of Dead: loro li conosciamo già, così come conosciamo la loro particolare mistura di noise e progressive. C’è da dire che tali alchimie sonore funzionano meglio su disco, mentre in sede live non tutto va per il meglio (in particolare, non capisco a cosa possano servire due batteristi che suonano all’unisono); ma, in ultima analisi, i Nostri non deludono del tutto le aspettative, e finiscono per essere di gran lunga il miglior gruppo esibitosi nel pomeriggio. Pollice alzato per la band di Austin.
Mentre la gente continua ad affluire, tocca agli Hot Hot Heat: altro gruppo Canadese, altro buco nell’acqua (evidentemente non tutti in Canada sono all’altezza di Voivod, SYL e Rush). Dopo giorni passati a rimuginare su di loro, non ho ancora compreso del tutto dove volessero andare a parare: electro punk? New wave musona? Gli ennesimi cloni di Cure e Joy Divison? Oppure qualcosa di più originale? Sia come sia, il risultato finale è un inutile guazzabuglio di stili e citazioni che rende il gruppo in questione totalmente indigesto: probabilmente loro vorrebbero dire qualcosa di più personale (sono anche dei buoni musicisti), invece sembra di aver a che fare con dei The Killers di serie B (e questo la dice veramente lunga sulla bontà della musica degli Hot Hot Heat). Più va avanti il festival, più rimango sconcertato e incredulo nel pensare che quasi tutte queste band abbiano firmato dei signor contratti con signore case discografiche.
I Maximo Park sono gli ultimi ad esibirsi alla luce del giorno. Per loro, grossomodo, vale il discorso fatto per i gruppi precedenti: poche idee e tanta noia. Certo, il quintetto Inglese è forse quello più smaliziato e ruffiano, sa benissimo come far entrare in testa un ritornello e ha compreso perfettamente che sul revival della wave e degli anni Ottanta in generale può ancora campare per qualche anno. Però qua si sta raschiando veramente il fondo del barile, e anche dal vivo i Maximo Park dimostrano di essere null’altro che una band di terza schiera, immeritatamente baciata dal successo discografico. Da segnalare le manie di protagonismo del cantante Paul Smith, sempre al centro della scena fino a risultare irritante. C’è chi ha apprezzato, però.
Cala la notte e con i Tool si inizia (finalmente!) a far sul serio. Il quartetto di Los Angeles sembra essersi trasformato rispetto al concerto milanese di un anno fa; se in quel frangente il loro show era stato caratterizzato da presunzione e svogliatezza, stasera la loro prestazione è impeccabile e coinvolgente. Potendo usufruire di suoni perfetti e di effetti multimediali finalmente alla loro altezza (bellissimo e d’impatto l’uso dei laser), Maynard Keenan e compagni sono protagonisti di una performance che non smette di sbalordire anche nel ricordo: questa volta gli strumenti sono bilanciati alla perfezione, tanto da far risaltare anche dal vivo le loro complesse tessiture sonore. Ma è proprio l’atteggiamento complessivo del gruppo ad essere cambiato, a partire dal frontman che ha addirittura voglia di scambiare qualche battuta con il pubblico! Anche la scaletta convince (quasi) del tutto: ottima la scelta di fare una sorta di “best of” della loro intera carriera, andando a ripescare perfino un brano dal loro debut album “Undertow” (Flood); certo, se avessero fatto anche “The Grudge”…
Concerto maiuscolo, senza dubbio.
Il clou del festival sono comunque i Nine Inch Nails: ovviamente mi aspettavo grandi cose dalla creatura di Trent Reznor, ma se possibile lo show è stato persino al di sopra delle mie aspettative. Prima di tutto lui è in grandissima forma: gasatissimo, fa piacere vederlo divertirsi mentre sciorina una serie impressionante di hits; ti aspetteresti un atteggiamento più cupo e incazzato, invece ti ritrovi il Trent che non ti aspetti, e va benissimo così. Da segnalare la scenetta surreale in cui il Nostro parla nell’orecchio al tastierista Alessandro Cortini per far tradurre in italiano le sue considerazioni pro – file sharing, indicativa del suo stato d’umore.
E la musica? Esattamente quella che vorresti sentire in un concerto dei NIN: satura di distorsioni e d’elettronica, ma allo stesso tempo diretta come un calcio nei denti. I classici sono resi in maniera superba, mentre i pezzi dell’ultimo album assumono una veste più lineare ma non per questo meno interessante. Gran finale con “Hurt” e Trent solo davanti alla tastiera. Senza parole.
Due considerazioni a margine: se l’organizzazione del festival è stata ottima (orari discretamente rispettati, ma soprattutto una cura davvero notevole dei suoni, perfetti dal primo all’ultimo gruppo, e mixare in modo professionale la musica di Tool e Nine Inch Nails non è propriamente un lavoro facile), non altrettanto si può dire della qualità complessiva degli artisti esibitisi. D’accordo che la defezione di Patton e del suo ultimo progetto Peeping Tom è stata una bella botta, ma certe band avrebbero fatto miglior figura a non presentarsi neppure.
Mi rendo conto che la mia possa sembrare una presa di posizione eccessivamente polemica e dura, ma ci sono delle volte in cui si è davvero stufi della minestra riscaldata.
Tool setlist: Jambi – Stinkfist – 46 & 2 – Schism – Rosetta Stoned – Flood – Lateralus – Vicarious.
Nine Inch Nails setlist: Hyperpower – The Beginning Of The End – Heresy – Terrible Lie – March Of The Pig – Closer – Survivalism – Burn – Gave Up – Me, I’m Not – The Great Destroyer – Eraser – Only – Wish – The Good Soldier – No, You Don’t – Dead Souls – The Hand That Feeds – Head Like A Hole – Hurt.
S.M.