Lo Stadio Olimpico di Roma, per la prima volta nella sua storia, invaso da metallari. Causa un’organizzazione degli ingressi un po’ farraginosa, arriviamo durante l’esibizione dei liguri Sadist. Che fossero dei fenomeni non lo scopriamo oggi, che abbiano raccolto infinitamente meno di quanto meritassero idem. Ora si sono riformati, vanno avanti, sul palco fanno scintille il pubblico li applaude. Meriterebbero ben altra posizione in scaletta, per meriti storici e artistici, ma ci si deve accontentare, dicono. Grandi.
Di Lauren Harris abbiamo già parlato (male) in passato. Pop rock con unghiette finte, nient’altro. La band è in gamba e professionale, lei mette nome e graziosa presenza, ma la voce madre natura non gliel’ha data. Speriamo che il padre (che per chi fosse stato distratto è Steve Harris, basso e mente degli Iron Maiden) abbia presto vergogna per la sua progenie e smetta di portarla in giro sbattendola su palchi così importanti.
Arrivano i Mastodon, attesi da molti dei presenti con una certa ansia. La prestazione soffre per la totale assenza di interazione col pubblico e per un missaggio dei suoni da galera, sparisce una chitarra, spariscono dei piatti alla batteria e il rullante è impostato bassissimo. Loro però si dannano l’anima, ripropongono pezzi recenti e meno recenti con lucidità, grinta e precisione dimostrando di avere tutte le carte in regola per essere la next big thing (altro che Trivium, insomma!). “I Am Ahab” in chiusura lascia il pubblico visibilmente soddisfatto.
Chi aveva nostalgia dei Machine Head? Dalla risposta del pubblico si direbbe un sacco di gente. Rob Flynn e compari salgono sul palco e non fanno prigionieri, attingono a piene mani dal loro repertorio, con un occhio di riguardo all’ultimo disco, omaggiano Dimebag Darrel (riscuotendo sinceri e commossi applausi) e terremotano i presenti per un’ora. Purtroppo anche in questo caso i suoni non sono certo il massimo e loro si dimostrano un po’ troppo statici ma, almeno, Flynn ha imparato a cantare i passaggi con la voce pulita.
Ogni appassionato di musica heavy ha visto i Motorhead dal vivo almeno 2 volte nella vita. Impossibile scrivere qualcosa che non sia stato già scritto o detto prima. Lemmy è un vecchietto, con la dentiera e una vistosa voglia di ginocchio malcelata dai capelli tinti di nero (e con evidente ricrescita), bolso, con segni di lifting sul viso e vagamente rintronato. Ci dice che suona rock and roll (stranamente oggi non ha voglia di prenderci a calci in culo) e attacca a pestare duro per un’ora, senza cedimento alcuno. Raramente si è visto un Lemmy tanto ciarliero e in vena di convenevoli col pubblico, sarà stato il caldo o il vino dei castelli, ma lo abbiamo visto sinceramente divertito. Fa piacere quindi constatare che dopo millenni passati su palchi di qualsiasi dimensione, questo signore, che nella vita ha davvero provato tutto, ancora si diverta a fare casino davanti a un pubblico. E il concerto? Un concerto dei Motorhead, cercatevi una recensione a caso degli ultimi 20 anni. Si, noi ci siamo divertiti parecchio.
Gli Iron Maiden, signori, confermano il loro miracoloso stato di forma in quello che sarà il penultimo concerto prima di uno stop di un anno, necessario perché “dobbiamo costruire una piramide” (parole di Dickinson, che allude al prossimo tour antologico). Scenografia notevole, loro assolutamente in palla, sia pure con qualche limite causa età (Murray è più inchiodato di Iommi, ormai) ma sono inezie. Quello che conta è che il pubblico è stato in delirio dall’inizio alla fine. Certo, la scaletta poteva essere migliore, troppi brani dal recente “A Matter Of Life And Death”, soprattutto pezzi troppo lunghi che di conseguenza rubano troppo spazio agli attesissimi classici. Non è mancata fortunatamente la perla con “Children Of The Damned” che non veniva eseguita in Italia non si sa nemmeno più da quanto tempo. Concerto quindi trionfale, un successo scontato e speriamo che lo stato di grazia duri ancora per altri anni. Dio salvi gli Iron Maiden, è proprio il caso di dirlo!
S.D.N.
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