Il 18 maggio 2014 il John Butler Trio si è esibito in concerto all’Estragon di Bologna. E anche se ho scritto questa prima frase in maniera preconfezionata, la mia intenzione è quella di mandare a farsi fottere ogni cosa che ho imparato su come si scrive un live report. Anche perché questa non è la recensione del concerto, è il racconto di una delle più intense giornate della mia vita.
Scriverò per me, per tutte quelle persone che hanno vissuto il concerto e per chi ancora non conosce il Trio e non sa cosa si sta perdendo. Voglio persino compromettermi guidandovi nella lettura, facendovi ascoltare qualcosa che possa aumentare la vostra empatia mentre cercate di stare dietro ai miei deliri. Quindi prima di proseguire avviate la riproduzione del video che trovate qui sotto.
Da Torino a Bologna per intervistare John Butler in persona e assistere al concerto. E se vi dicessi che poco dopo essere arrivato nella città delle due Torri, girando per Piazza Maggiore, ho incontrato proprio i tre australiani che si divertivano a fare i turisti, zaino in spalla? Ovviamente non ho perso l’occasione di spararmi una bella figura di merda e mi sono fiondato a salutarli, come un fan esagitato della peggior specie. Tanto che non mi riesce difficile ipotizzare che mi abbiano scambiato per uno squilibrato – che poi a dirla tutta lo sono, chi mi conosce bene lo sa – quando gli ho anticipato che avrei tenuto l’intervista.
Sì, ero ovviamente preparatissimo, col colpo in canna, ma dopo averli incontrati mi è successo più o meno quello che succede a chi si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato in un film di Men in Black: mi hanno formattato il cervello. E sono così fenomenale che ho preferito non stamparmi nulla. “Ho tutto in testa, è molto più professionale, non voglio leggere le domande!”. Mi faccio quasi tenerezza.
L’intervista però è stata un sogno. Non si trattava solo di domande-risposte, perché dopo essersi seduto John ha imbracciato la chitarra e ha iniziato a suonare per me. Sì, non sto scherzando, accompagnava le sue risposte con la sua musica, ed è stato qualcosa di mistico. E allora io ho dimenticato di nuovo l’ordine preciso delle domande, ho improvvisato e mi sono fatto trasportare dal flusso.
A fine intervista mi ha fatto i complimenti perché ho dimostrato di conoscerlo a fondo, perciò cosa avreste fatto al posto mio? Tanto ormai l’aveva capito che non ero capitato lì per caso, che ero un fan travestito da scribacchino. E allora la foto insieme dovevamo farcela, e ce la siamo fatta.
Dopo essermi allontanato dall’Estragon nessuno ha potuto vietarmi un urlo liberatorio. E la birra. Ma sostanzialmente non ci ho capito più nulla, ho passato le ore che rimanevano prima del concerto a ripensare a quell’incontro, a inondare di discorsi chi era con me, rendendomi conto un minuto alla volta del valore di quella giornata.
Arrivati al concerto ci si ritrova a salire sulle montagne russe di cui parlava John nel pomeriggio. Io, per non farmi mancare nulla, tra l’opening act e l’esibizione vera e propria sono riuscito a collassare. Un calo di zuccheri, un po’ per fatalità, un po’ per dei ritmi che mantengo incoscientemente da troppo tempo. E lo so che sembra il discorso di un folle, ma in qualche modo non sono dispiaciuto di quel momento. Ha reso ancora più viscerale la serata, perchè ho vissuto tutto mentalmente, sentimentalmente e fisicamente. E poi non ha pregiudicato il resto, anzi, forse proprio come reazione nelle restanti due ore mi sono sentito spaventosamente vivo e sul punto di esplodere. “Revolution” è stato l’inizio perfetto. Catartico, pulsante e ispirato. Ogni brano a seguire, ogni singolo fottuto brano, è riuscito poi ad aggiungere qualcosa all’ascolto in cuffia.
Sulle note di “Ocean” è stato come spezzare catene di cui non conoscevo neanche l’esistenza. Quindici minuti di sola chitarra acustica, non una parola. Io non so neanche dire cosa ho fatto durante quel quarto d’ora. Credo di aver urlato, di aver ballato, di essermi percosso il petto come fossi King Kong. E poi mi sono anche commosso. Non li ho neanche nascosti gli occhi lucidi, tanto non ero il solo. A dire il vero ho anche strappato la maglietta lungo una cucitura, ma me ne sono accorto solo il giorno seguente. Insomma, non ci ho capito un cazzo. Però non sono stato l’unico, lo posso giurare! Il sisma creato dalla nostra incapacità di contenere quella spinta emozionale l’abbiamo sentito tutti, sulla colonna vertebrale.
Ma la musica non era abbastanza per lui. No, ha deciso di chiudere il cerchio e tradurre ogni tumulto interiore in un discorso straripante d’entusiasmo. “Non esiste il fottutissimo ieri. Non c’è, dimenticatevelo. E non esiste neanche il fottutissimo domani. C’è solo questo momento”. Ha avuto bisogno anche lui di rimuovere ogni parvenza di inibizione liberandosi in un urlo, a cui ha fatto eco quello di tutti noi. Così in “How You Sleep At Night” sono riuscito a scoprire che uno dei brani che ho consumato meno dell’ultimo album è anche quello che dal vivo mi coinvolge di più.
Ma come faccio a spiegarvi? Ci avete capito qualcosa di quello che è stato? So benissimo che io ho vissuto tutto amplificato, e c’è altro che non sto a scrivere che ha permesso una convergenza al limite del possibile, però è stato tutto reale. Davvero, è stato tutto dannatamente reale.
“You blew your breath deep into my soul
Where we have been no one will ever know”